martedì 15 novembre 2016

Il muro

di Filomena Baratto

Vico Equense - C’è un romanzo di Jean Paul Sartre dal titolo il “Muro”, del 1939, formato da cinque racconti. Di questi, il primo dà titolo alla raccolta e tratta del muro su cui saranno fucilati alcuni prigionieri durante la guerra civile in Spagna. Tratta dell’assurdo destino che incombe sugli uomini: Pablo si prepara a morire, ma quando i carcerieri gli chiedono di confessare il nome di un compagno, lui si vendica, e ben sapendo di morire, dice loro una bugia. Il compagno, per caso è trovato e i carcerieri liberano Pablo per aver fornito loro le giuste indicazioni. Il muro rappresenta qui lo stato di pietrificazione cui siamo giunti, secondo Sartre, tanto da trovarci ben poca solidarietà e fratellanza. “ Il culto dell’individuo, che dal Rinascimento ha indirizzato verso una coscienza sempre più autoreferenziale, ha paradossalmente inciso sulla disgregazione sociale generando una serie di individui non comunicanti” Ed è questo l’aspetto più marcato: la mancanza di partecipazione alle sorti degli altri. Un muro crea una chiusura entro un confine. In un mondo globalizzato, aperto, secondo Zygmunt Bauman, creare confini è anche più facile. Di crollato c’è solo quello di Berlino, l’unico fatto cadere nel 1989, ma altri vivono in più parti della terra. Sin dall’antichità la velleità di circoscrivere il proprio territorio con un muro, è stata prerogativa di tutti i re.


Al punto in cui siamo arrivati con la globalizzazione, alzare un muro sembra un paradosso. Tracciare un con-fine, (da finis, tracciare una linea, dal greco oros, tracciare un solco), mettere un segno da non oltrepassare, rende un’idea completamente opposta a quella che è la libertà e il senso della globalizzazione. E questo villaggio che abitiamo è diventato quello che all’inizio fu per Romolo appena tracciò una linea di confine. Quella linea fu necessaria per evitare il caos e mettere ordine, e Romolo, proprio mentre credeva di essere giusto, uccise suo fratello. I muri continuarono a venire su come il Vallo di Adriano, la lunga muraglia in Britannia, costruita dal 122 al 128 d.C. ben 120 Km da Est a Ovest. Questa zona così organizzata era detta “limes”, una fascia di frontiera, una zona permeabile, una porta dove attendere e procedere. Il limite del territorio su cui vive un popolo con stessi usi e costumi, lingua e religione è il concetto di Stato moderno che nasce nel 1648 con la Pace di Westfalia. Ci sono Stati e Unioni di Stati, queste ultime sembrano più difficili da attuare per la molteplicità di interessi particolari di cui tener conto. L’Europa, solo dopo un lungo cammino è giunta alla tanto anelata Unione, ma già si avvertono i contraccolpi della Brexit con l’uscita della Gran Bretagna. Il mondo è stato conosciuto per intero e ora è ingestibile, e già si pensa di arginarlo in nuovi confini. Oggi, più che delimitare, si cerca, con il confine, di affermare quel concetto di giustizia e potere di cui era fornito il “rex”, il quale tracciando una linea (regere fines, tracciare le frontiere in linea retta) indicava sul terreno lo spazio consacrato, delimitando l’interno, l’esterno, il sacro, il profano, il territorio nazionale e il territorio straniero. La missione del rex era morale, di giustizia e a carattere sacro. Il muro che Trump vuole innalzare con il Messico, è solo l’ultimo in ordine di tempo, almeno nelle intenzioni. Il Presidente degli Stati Uniti d’America appena eletto afferma che costruirà questa lunga barriera e farà ricadere la spesa sul governo messicano. Pronta la risposta dal Messico che non si accolla la spesa. Il Presidente ha prodotto però un’ondata di reazioni sobillando anche animi meno nobili come quello di un famoso narcotrafficante, il quale ha risposto che non sarà difficile abbattere il muro e che sono i tunnel i passaggi migliori per i flussi di merci, di persone e di droga, e il problema è tutto lì. Credo che ogni muro eretto ci ricordi quello del Pianto, la parte che resta del Tempio di Gerusalemme.Costruito da Salomone nel X secolo a.C, il Tempio fu distrutto da Nabucodonosor. Nel 20 a. C, fu eretto un secondo Tempio da re Erode, ma fu nuovamente distrutto nel 70 d.C. dal generale romano Tito. L’unico muro dove si piange e si prega ma che non si teme, anzi sembra stare lì a raccoglierci nel suo abbraccio. Un muro che ci accoglie e non ci ferma. In Montale il tema del muro viene rapportato all’ indifferenza come unica scelta possibile per superarlo, meglio ancora poterci stare dentro: “Un rovello è di qua dall’erto muro. /Se procedi t’imbatti/ tu forse nel fantasma che ti salva…// Cerca una maglia rotta nella rete/ che ci stringe, tu balza, fuggi, fuggi! (In Limine); “E andando nel sole che abbaglia/ sentire con triste meraviglia/ com’è tutta la vita e il suo travaglio/ in questo seguitare una muraglia/ che ha cocci aguzzi di bottiglia. (Meriggiare pallido e assorto). Innalzare un muro è come pietrificare, maturare sentimenti duri e per niente fraterni, eppure non vediamo alternativa alla paura che incombe con i flussi migratori, con le differenze e con stati sociali diversi. L’altro fa sempre paura e invece di creare ponti per comunicare, crediamo che, innalzando muri, si risolva definitivamente il problema. La lezione da apprendere è che tutti i muri portano alla morte, da quello interiore a quello di cemento passando per l’indifferenza. Chiudersi nel proprio podere, anche quando questo rappresenti il “regere fines”, lo stesso atto di definire, di dover dire chi è dentro e chi è fuori, discrimina e paralizza, non solo l’altro, ma anche chi è dentro. Una linea chiusa è sempre limitata, sono gli spiragli aperti che salvano, come la maglia rotta nella rete della lirica di Montale. E se già la nostra vita è una muraglia ben fornita di cocci aguzzi di bottiglia, perché continuare a crearcene di nuove?

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