giovedì 2 marzo 2017

Il cacciatore

di Filomena Baratto 

Vico Equense - Mio nonno fu un grande cacciatore. Si arrampicava sui pendii delle montagne con grande agilità. Aveva una mira precisa così come era preciso nella descrizione delle sue imprese. Grande affabulatore, rievocava con minuzie di particolari le sue giornate di caccia e quando lo si ascoltava, sembrava venisse fuori dall’ “Uccellagione di starne” di Lorenzo il Magnifico: … contadin tornava al suo lavoro; le stelle eran fuggite, e già presente si vedea quasi quel ch'amò l'alloro; ritornavansi al bosco molto in fretta l'allocco e 'l barbagianni e la civetta. Al rientro, raccontava come aveva svolto la giornata, davanti a uno stuolo di amici al bar, attorno a bicchieri pieni di vino. Lo ricordo mentre alzava le braccia simulando il fucile, lo scoppio e la caduta del tordo o della quaglia e, una volta a terra, tutti intorno i presenti trattenevano il respiro come se davanti a loro ci fosse il funerale del povero pennuto. La nonna, quando si trovava nei paraggi, lo invitava ad essere conciso, ma senza riuscirci. Dopo aver raccontato l’impresa, quasi si rattristava per aver abbattuto un bel po’ di volatili. Gli piaceva preparare la sua giornata di caccia, tra cani, ceste, cartucce, scarponi. E quando stava lassù, trascorreva le ore a scrutare, puntare e colpire le prede. Una volta, ero molto piccola, seduta dietro al bancone del bar, avendo ascoltato un suo racconto, mi indusse a disegnare uccellini in volo e sotto un cacciatore con fucile che, “pum”, prendeva la mira. Lui, tutto entusiasta, rappresentava il disegno aprendo le sue braccia e facendole oscillare in un movimento ondulatorio a mo’ di ali in volo.
 
Poi invitava gli amici a venire verso di me per mostrare loro quanto fossi brava a rappresentare le sue storie. Chiedeva poi un giudizio sul mio disegno che, se anche fosse stato da buttare, avrebbero detto che era una gran meraviglia per non deluderlo. C’è da dire, però, che i miei disegni erano fin troppo esplicativi per i miei quattro o cinque anni. Ricordo anche che, appena andavo via con l’altra nonna, mi lamentavo per quei poveri uccellini che il nonno portava stecchiti nella cesta. La nonna diceva che gli uccelli erano come i polli, ma io le rispondevo che non andavamo a spararli, li crescevamo nel cortile e conoscevamo già la loro sorte sin dal momento in cui la chioccia li covava o li compravamo. Lei storceva il naso e non parlava più, per non avere argomenti con cui controbattere. Al silenzio, seguiva un’altra riflessione, affermando che lì tutti andavano a caccia e non solo il nonno e che per tutti era uno “sport”. Uno sport che mio nonno praticava quasi tutti i giorni. Allora non c’era alcun divieto, né una legge che disciplinasse la materia. Oggi, in base alla legge 157 del 92 che pianifica l’attività, la caccia si è ristretta per svariati motivi. Ci sono norme che tengono conto della distanza da tenere per poter sparare, delle cartucce di cui servirsi, della cattiva abitudine dei silenziatori di fucili da evitare, e non da ultimo di tempi da rispettare. Si può cacciare dalla terza domenica di settembre al 31 gennaio, dopo bisogna rispettare i tempi di crescita e adattamento delle specie e le nidificazioni. La tematica della caccia è varia e complessa con una serie di regole da osservare nel rispetto della fauna. Non da meno è il problema del piombo delle cartucce che inquina l’ambiente creando anche seri problemi in presenza di persone. La Regione e la Guardia Forestale ne disciplinano la materia e quest’ultima preposta anche alla sorveglianza. Oggi la caccia è diminuita di gran lunga rispetto al passato per una maggiore sensibilizzazione delle nuove generazioni al problema molto sentito e il fatto che sia stata fortemente riorganizzata, toglie ogni piacere ricreativo rispetto a un tempo. La caccia nasce come attività ricreativa, ma nel tempo è diventata attività più di bracconaggio e di scempio per la natura. Un sentimento avverso alle leggi è maggiormente sentito da coloro che la praticano da una vita e non si sottomettono alla normativa. Si crede e si pensa ancora come nel medio evo, quando la selvaggina era considerata di nessuno. La si vive con un senso di libertà, secondo modi più vicini al nostro istinto di conservazione. Oggi bisogna attenersi a luoghi, tempi e specie. Sicuramente se mio nonno fosse ancora tra noi, sarebbe stato un problema spiegargli che oggi ci sono leggi ben precise che regolano questo campo. Non ci sarebbero state ragioni e sarebbe ancora lì, lungo i sentieri battuti da sempre, dove esercitava la sua mira, il suo occhio nell’abbattere le sue specie predilette. Oggi assistiamo agli scempi avvenuti nel tempo in cui non si disciplinavano le cose e si lasciavano al buon senso. Non ci si può affidare ai parametri del buon senso, si sfocia sempre nell’egoismo a scapito del bene comune: la natura. Se passeggiamo o ci inoltriamo in folte boscaglie e luoghi montani, possiamo osservare, sparsi qua e là cartucce, pallini e materiale vario che ci racconta dei cacciatori e di come questi si inoltrino senza badare se il fondo sia percorribile, se le specie in quella zona siano cacciabili, se siamo in periodo di fermo per la crescita delle specie. Se mio nonno fosse ancora qui, gli direi che avrei anch’io da vivere su questa terra come lui e come altri dopo di me e non può lasciarmi “impallinata” in un contesto dove la natura non riesce più a sostenere le infrazioni in cui gli uomini cadono ogni giorno, credendo che la Terra sia un bene immutabile. Prima o poi ci saranno delle ripercussioni serie se bistrattiamo tante cose. E’ ora di prendere in seria considerazione la salute del nostro pianeta, a cominciare dal nostro piccolo.

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