venerdì 5 maggio 2017

Il Cinque maggio

di Filomena Baratto 

Vico Equense - Stamattina in macchina, sentivo alla radio quei giochetti di intrattenimento per RDS e, alla domanda “Chi ha scritto Il Cinque maggio?”, la risposta è stata Carducci. Al posto di Manzoni mi sono sentita una deficiente. Scrivere un “papiello” per Napoleone con quell’incipit diventato un manifesto “Ei fu” ed essere bistrattato a tal punto, è come aver inferto un colpo a Manzoni, a Napoleone, a Carducci, alla poesia e alla letteratura. Ora direi, ragazzi, finiamola di studiare a mo’ di“cazzeggio”. Siamo stati ragazzi e studiare si sa, non piace a tutti e non lo si fa sempre con lo stesso impegno, ma un po’ di responsabilità ci vuole e quando non sappiamo certe cose, stiamo zitti, non rendiamo palese la nostra ignoranza come se fosse un vanto. Il passato, anche se non c’eravamo, è vita che si studia come storia e lo si apprende a scuola. Non sto qui a fare la predica sullo studio, né la bacchettona, ma un po’ di buon senso ci vuole. Ragazzi, se cominciate a studiare Il cinque maggio, e non solo, ma qualsiasi lirica, o brano, o testo, non lo fate per far finta, ma andate fino in fondo, imparate a portare a termine ciò che intraprendete e forse scoprirete tante cose. Imparerete da un personaggio storico, da un autore, da una parafrasi, da un commento, da una lezione di storia. Se non vi incuriosite, non apprendete e imparare è prima di tutto voglia di sapere.
 
E non basta nemmeno conoscere i versi a memoria, devono entrare in testa, ragionarci sopra, renderli vivi, capire cosa ci vogliono trasmettere. Manzoni scrisse quest’ode di getto per la morte di Napoleone, ormai in solitudine sull’isola di Sant’Elena.Secondo Natalino Sapegno è la lirica più riuscita di Alessandro Manzoni per averle dato ampio respiro e per aver partecipato alla morte del personaggio con grande spirito religioso. Egli vede non il grande eroe, ma l’uomo che è in lui, la solitudine che lo ha accompagnato nel corso della sua vita. Napoleone muore sull’isola di Sant’Elena il 5 maggio del 1821 e subito il Manzoni ne trae ispirazione per un’ode in diciotto strofe, dove adotta come metro lo stesso dell’Adelchi, nel coro di Ermengarda: settenari sdruccioli, piani e tronchi, anche se qui acquistano un respiro diverso, più sonoro. Napoleone, che aveva sconvolto l’Europa conquistando e sottoponendo popoli, si rivela, attraverso i versi, in tutta la sua umanità, e Manzoni tralascia la ricerca di valori storici collettivi per guardare più alla vicenda umana dell’uomo. E mentre in vita Napoleone è volto alla ricerca del potere e della gloria, poi, con la sua morte, l’autore della lirica trasforma la sua sconfitta nel vero eroismo e valore del personaggio. Si ribaltano i valori e l’autore si chiede, guardando il suo passato, se le sue imprese furono vere glorie. Descrive un uomo che per la prima volta cerca di conoscersi e lo fa proprio nel declino dei suoi giorni, in solitudine, in una prigionia fin allora interiore. Manzoni, bravo a carpire i moti dell’animo, fa emergere un aspetto dell’Imperatore fin allora sconosciuto. Ed è proprio questo a rendere la lirica famosa e a farla divulgare, a cominciare dal Goethe che la tradusse in tedesco. L’umanità di Manzoni vede e legge l’umanità di un altro uomo fin allora visto solo come onnipotente. Per dire che “ognuno dal proprio cuor l’altrui misura”. Ed è la sconfitta a riscattare l’eroe per inserirlo in un piano più ampio della Provvidenza, facendolo approdare nel conforto della fede.

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