mercoledì 17 maggio 2017

Nuovo romanzo di Raffaele Lauro. La regista Eleonora Di Maio interroga l'autore sulle fasi del suo processo creativo

di Eleonora Di Maio 

Sono amica di Raffaele (Lauro), fin dalla giovinezza, ormai è passato qualche anno (ahinoi!), da quando lui insegnava Storia e Filosofia al Liceo “Gaetano Salvemini” e, più intensamente, quando divenne assessore alla Cultura del Comune di Sorrento, animatore infaticabile, tra i giovani e per noi giovani, di alcune iniziative culturali memorabili, che hanno segnato molti di noi, come preludio, per alcuni, anche della futura professione. Ricordo, in particolare, le “Rassegne Teatrali”, per le scuole superiori, in collaborazione con l’indimenticabile maestro Bruno Cirino Pomicino; la “Scuola di Teatro”, affidata al regista RAI torinese, Lorenzo Ferrero di Roccaferrera; il lancio della nostra radio locale, “Radio Sorrento International”, con il mio compianto fratello Ottavio e con Giuseppe Tramontano, oggi affermato costumista di cinema, di teatro e di balletto classico; il lancio, al Teatro Armida, de “La Gatta Cenerentola” del maestro Roberto De Simone, con la straordinaria Concetta Barra, madre di Peppe e Gabriele; i premi letterari e gli spettacoli di danza classica. Difficile ricordare tutto! Anni fervidi di iniziative e di entusiasmo giovanile. Poi, Raffaele si trasferì a Roma per una brillante carriera istituzionale e politica, non rinunziando, tuttavia, alla sua passione per il cinema (sceneggiatura, regia) e per la narrativa, ottenendo, nel 1987, il “Premio Chianciano di Narrativa Opera Prima”, con “Roma a due Piazze”, edito dalla CEI.
 
Confesso di non aver approfondito tutti i suoi romanzi, ormai sedici, ma di aver molto apprezzato gli ultimi, quelli dedicati al grande Lucio Dalla e alla danzatrice russa Violetta Elvin. Proprio Dalla ci ha fatto rincontrare, dal punto di vista artistico, quando Raffaele mi ha affidato la regia della serata-omaggio, il 4 marzo scorso, al Fauno Notte Club di Sorrento, per celebrare l’anniversario della nascita di Lucio (4 marzo 1943 - 4 marzo 2017), con la mia compagnia teatrale del “Cabaret Chantant” e con la cantante Francesca Maresca, la quale ha interpretato, in modo appassionato, la canzone “Uno straccione, un clown”, dedicata, per l’occasione, da Raffaele al grande artista. Una serata di successo e di emozioni, da incorniciare! Per questo, mi ha offerto di leggere questo suo nuovo romanzo, “Don Alfonso 1890 - Salvatore di Giacomo e Sant’Agata sui Due Golfi”, caratterizzato, nel contenuti, attraverso la ricostruzione romanzata della famosa dinastia di ristoratori-albergatori Iaccarino di Sant’Agata sui Due Golfi, dalla celebrazione della nostra amata costiera, da Agerola a Massa Lubrense, e, nella forma, da una scrittura per immagini. Dove i personaggi, sia quelli storici, che quelli, in particolare, di invenzione narrativa, pur nella loro vitale concretezza e nei loro sbalzati profili psicologici, del tutto verosimili, diventavano anche emblematici, metaforici, pur rimanendo essenziali alla tessitura narrativa. Ho voluto approfondire, con lui, il processo creativo, in particolare di alcuni personaggi di invenzione, che non sembrano veramente tali. A differenza di altri scrittori, anche famosi, con i quali, comunque, condividi una notevole capacità di vedere, maturata in relazione anche alle tue esperienze professionali, mi ha colpito la tua abilità, che ti deriva certamente dalla tua multiforme cultura, alla quale attingi copiosamente, senza, tuttavia, farla mai pesare al lettore, di mescolare “mondi reali” e “mondi di finzione”, personaggi storici e personaggi di invenzione narrativa. Come si determina questo processo creativo, che non consente, alla fine, di distinguere più quanto accaduto da quanto inventato? Diventando questo un assoluto pregio narrativo, la cifra delle tue opere? Quello che tu, Ele, definisci il mio processo creativo, dopo la nascita dell’ispirazione per un romanzo, intorno ad una persona, ad un evento o ad una storia, si articola in due fasi distinte. La prima è definibile come la documentazione. Cioè, la ricerca dei documenti scritti e delle testimonianze orali, in pari misura, in un’osmosi continua. Dalle testimonianze verbali può nascere la necessità di attingere ad altri documenti, ad altri atti, a scritti, a saggi, ad articoli di stampa e a pubblicazioni. Allo stesso modo, da un documento si può rendere utile individuare e rintracciare un testimone, che, con la sua viva voce, anche con un semplice dettaglio (chi scrive non deve mai trascurare i dettagli!), ti apre ulteriori varchi, nuovi orizzonti e più ampie prospettive narrative. Da questa prima fase, viene fuori un progetto narrativo, una struttura del romanzo, con l’individuazione dei personaggi storici da trattare e da connettere alla narrazione, dei luoghi e dei tempi dell’azione narrativa, dei colpi di scena, delle tracce da cennare, per poi ritornarci, dopo, diffusamente. La struktur, come la definiscono i tedeschi. La costruzione, il sommario e, persino, i capitoli. Il tutto, però, senza rigidità, perché, spesso, quello che ritenevi una sorgente ricca, si essicca subito, mentre quello che ti sembrava un rigagnolo, diventa un fiume impetuoso. Dipende dalla sensibilità, dalla formazione culturale, dai valori, dalle passioni e, persino, dalle nevrosi e dalle sofferenze di chi scrive. L’illusione realista e iperverista, specie di matrice francese, resta tale: un’illusione. Un libro non si scrive da sé, l’oggettività non esiste. Ogni vicenda romanzata, come ogni personaggio, anche storico, del quale bisogna ricostruire momenti di vita e dialoghi, si colora, anche inconsciamente, di elementi biografici dell’autore, da lui vissuti o rivissuti, anche a livello inconscio. A che servono allora i personaggi di totale invenzione narrativa? Perché diventano essenziali? Per riempire i vuoti, per rendere coerente l’azione narrativa, per connettere, tra loro, i personaggi storici e per armonizzare ciò che si romanza. Ad esempio, in questo romanzo, il periodo americano del piccolo emigrante di Sant’Agata sui Due Golfi, il quattordicenne Alfonso Costanzo, detto Alfonsino, era pieno di lacune. Poco e niente si sapeva di una esperienza formativa, anche nel carattere, assolutamente non declinabile, non trascurabile e, peraltro, per me, affascinante! Documenti zero, foto zero, neppure la registrazione d’ingresso in America (i registri furono adottati successivamente, ad Ellis Island). Nessuna notizia della traversata atlantica. Testimoni diretti nessuno. Testimoni indiretti con poche notizie: gli zii americani, Luigi e Carolina, il lavoro come muratore e, poi, come massaggiatore di boxeur italoamericani, l’invenzione degli strascinati e il rientro, dopo soli quattro anni in Italia, con un “gruzzolo”. Allora? Allora sono partiti approfondimenti sul tragico e dolente fenomeno dell’emigrazione meridionale, alla fine dell’Ottocento, sulla tipologia dei piroscafi, destinati al trasporto degli emigranti, da Napoli a New York, sulla vita di bordo, comprese le malattie epidemiche, sui naufragi, sulle centinaia di foto pubblicate in libri e nei musei dell’emigrazione, sulle lettere degli emigranti, sulle pubblicazioni, sulle visite micidiali per l’accesso in America, sugli articoli dei giornali di New York, su quella massa di disperati, vilipesi, sulle condizioni di vita e di lavoro dei nuovi emigranti meridionali, sulla vita quotidiana a Little Italy o a Mulberry Street, sulle palestre dei pugili, sulle locande... Un lavoro di approfondimento imponente. Certo! Il personaggio di invenzione narrativa deve essere non solo credibile, ma attendibile. In ogni suo più piccolo dettaglio: come si veste, come parla, cosa dice, come opera, come bestemmia o come prega. Se si commette un errore, ad esempio, nel descrivere uno strumento di lavoro, all’epoca inesistente, il personaggio diventa ridicolo, come se in una scena di un film in costume, ad un senatore romano antico, si intravveda un orologio al polso! Eppure si è verificato! Francesco, il soldato borbonico, rimasto fedele al suo re; lo zio Tom, l’impresario pugilistico nero e il cuoco abruzzese Fulgenzio sono personaggi di invenzione! Eppure sembrano più realistici del personaggi storici! Questo rappresenta un complimento, perché il lettore, alla fine, se il processo di invenzione e di immedesimazione risulta ben riuscito, non deve più distinguere gli uni dagli altri! La logica dei rapporti deve essere stringente, come fosse accaduta! Le storie di finzione narrativa si nutrono di storie vere e viceversa. Il romanzo, quindi, come genere letterario, uno dei maggiori generi letterari, diventa una fiction narrativa, estesa in prosa, in cui i personaggi, lo spazio e il tempo, costituiscono elementi fondamentali, purché mai indeterminati. La mia formazione storicistica mi impone sempre la precisa individuazione degli scenari storici, gli sfondi sui quali la narrazione e le vicende dei singoli si sviluppano, nonché come i “grandi” eventi della storia si possono intrecciare con le “piccole” vicende del protagonisti. Dall’universale al particolare. Dal particolare all’universale. Tutti i commentatori mi riconoscono questa ascendenza manzoniana. Di questo non meno vanto, ma ne sono orgoglioso. Il soldato borbonico mi consente di far aprire gli occhi ad Alfonso Costanzo sull’Unità d’Italia, sul dramma dell’esercito borbonico, sui vinti della Storia. Zio Tom mi offre la possibilità di descrivere un ambiente contiguo alla malavita italoamericana, futura mafia, dalla quale il giovane si salva per merito dei suoi zii e del suo boss, onesto e incorruttibile. Fulgenzio, invece, diventa lo snodo fondamentale dell’esperienza americana, perché gli apre la strada della cucina e all’invenzione degli strascinati. Un parola conclusiva su Gennaro Stoiber, un personaggio di invenzione che mi ha molto affascinata, fin dal nome e cognome, l’impresario musicale della Piedigrotra, amico di Salvatore Di Giacomo, di Roberto Bracco e di Francesco Cilea, che li conduce in auto, da Agerola a Sant’Agata sui Due Golfi, a scoprire il borgo massese e la cucina della Pensione Iaccarino! Nessun impresario musicale dell’epoca piedigrottesca poteva fungere da raccordo narrativo tra i tre personaggi, soggiornanti ad Agerola, che si innamorano anche di Sant’Agata. Avevo pensato, agli inizi, al barone Ferdinando Bideri, fondatore dell’omonima casa editrice musicale, di nove anni più anziano di Di Giacomo e in eccellenti rapporti con il poeta. Avrei dovuto, però, forzarne la figura. Don Gennaro Stoiber l’ho costruito a pennello, con il nome napoletanissimo del nonno materno e il cognome teutonico del padre tedesco, un commerciante, innamorato di una soubrette di café chantant, la madre, con la quale ha una relazione e un figlio. Amante delle belle donne e delle auto veloci, discepolo della corrente futurista, tanto marito e padre esemplare, quanto puttaniere piedigrottesco, con un pizzico di rigore nordico. Lo trovo affascinante, quanto credibile. Vedremo cosa ne penseranno i lettori. Dovresti, però, non abbandonare il teatro, la drammaturgia! I tuoi dialoghi nel romanzo lo provano! Hai iniziato con la bellissima tragedia radiofonica “La morte di Antinoo” e, poi, ti sei fermato, preso da altre cose, tante, troppe... Non ti posso dar torto! Io non resisto all’immediato! Ti prometto, comunque, che se tu metterai in scena il mio Antinoo, il giovane schiavo amato dal grande imperatore Adriano, io mi rimetterò a scrivere per il teatro. Per te! La promessa è un debito! D’altro canto, quando con Enzo Giammarino, noi, giovani teatranti non ancora professionali, mettemmo su uno spettacolo teatrale, “Fine”, al Chiostro di San Francesco, a Sorrento, alla fine proprio tu, prima mi elogiasti, come protagonista, poi mi suggeristi di educare la mia voce e di studiare nelle grandi scuole di teatro, con i grandi maestri! Sentivo già forte il bisogno di migliorare la mia formazione e la tua osservazione mi spronò. Cosi lasciasti la provincia per Parigi e, poi, per Roma? Ricordo bene? Due anni dopo ero al Conservatoire d’Art Dramatique du Luxembourg a Parigi e, qualche anno dopo ancora, all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, a Roma. Ricordi bene, professore!

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