martedì 13 giugno 2017

Il male “brutto”

di Filomena Baratto

Vico Equense - Quando ero piccola e sentivo parlare di “tumore”, scappavo. Avevo questa reazione da quando avevo capito che a questa malattia non si sopravviveva. Una volta la mia maestra elementare parlò del “cancro”, definendola una malattia che non perdona. Tra gli adulti non si nominava, era l’equivalente “Innominato manzoniano”, attribuendogli il valore di una persona. Oggi si sono fatti notevoli progressi e non fa più paura come una volta ma resta sempre, nel nostro immaginario, uno spauracchio, come quegli spaventapasseri posti nel terreno per allontanare gli uccelli. E vincerla significa avere tanta forza di volercela fare e rispettare un protocollo non sempre facile da osservare. Una forza che deve nascere dentro di noi sconfiggendo prima ancora la paura, che da sola basta a mettere un freno alla voglia di guarire, come del resto a tutte le cose. Con questa malattia sperimentiamo la nostra miseria, sapendo che un cumulo di cellule vive un progetto tutto suo senza consultarci, senza farsi carico della nostra voglia di vivere. Da adulta ho imparato a convivere con questo spauracchio che mi ha portato via tante persone care, ma altre me le ha preservate. Ieri mattina, le parole di un’amica che lamentava il caldo come il suo problema principale e non la malattia, mi ha fatto riflettere.
 
Le persone affette da questo male nella bella stagione soffrono per due motivi: primo il caldo che le opprime e poi la luce che le anima di voglia di vivere, che le pone in uno stato contraddittorio, rendendole a volte più depresse. Spesso si mettono in ombra, distanti dagli altri, cercando luoghi più bui, per assecondare il loro stato psicologico. A volte togliamo loro anche una visita non sapendo cosa dire in circostanze del genere. Bisognerebbe trattare con loro come se non fossero ammalate e ascoltarle, questo è il modo migliore di stare assieme. Fa bene che si raccontino, che dicano anche le cose più banali. Le nostre sono scuse per non guardare in faccia il dolore, visto che la vita non ce lo risparmia. Nella malattia cambiano gli equilibri, che diventano fragili e precari, cambia la nostra vita, che non vede progetti ma giorni e nei giorni le ore e in quelle ore i minuti di benessere che il familiare riscontra. Cambiano le paure: quelle che prima potevano dirsi insormontabili diventano solo ricordi, visto che se ne aggiungono altre più grandi. Un progetto può essere anche solo quello di sorridere con chi abbiamo accanto se ci aiuta a non deprimerci. I momenti sereni vissuti con affetto valgono più del tempo e più della paura. Farsi compagnia, ascoltare l’ammalato, essere presenti, prendersi cura di lui è vivere molto meglio anche per le persone che gli girano intorno. Ho sperimentato con mia madre che questa malattia rispolvera il nostro lato migliore, crea legami più forti, fa collaborare, non fa porre domande a cui non si possono dare risposte, non si guarda troppo al futuro. Che sia questo il modo per capire l’affetto sincero, la vera natura che è in noi, quella scevra da ogni vanità, ogni pensiero inutile. Sembra paradossale, ma ogni persona ammalata del “male” incontrata mi ha insegnato qualcosa e quello che ho imparato da loro non avrei potuto apprenderlo diversamente. Mia madre da ammalata era sempre sorridente, mi abbracciava senza un motivo apparente, mi diceva parole di conforto, mi aspettava sulla soglia della porta quando ancora ero giù nell’atrio, seguiva i miei passi contando gli scalini che mi restavano per apparirle davanti e lei, a braccia aperte e tremante, mi tirava a sé e mi stringeva fino a farmi male “Che bella giornata oggi, e quando vieni qui è ancora più bella, oppure, “ Domani ti preparo qualcosa di buono, oggi non ce l’ho fatta”. Prima della malattia mi trattava come la persona che non aveva bisogno di niente. Poi ha cominciato a prendersi lei cura di me: mi incoraggiava, non voleva vedermi pensierosa, era ironica, facendomi sentire inopportuna se un pensiero buio si palesava sul mio volto. Ho vissuto due mesi intensi di vita, di parole, di affetto, di unione, di sintonia come non era mai successo prima. Mi è rimasto il suo sorriso, il suo umorismo, le parole che non aveva mai detto prima e le sue domande di tipo esistenziale come quella più stupida che possa dire una mamma ma anche quella che voleva dire tutto: “Ma tu, mi vuoi bene?”. Vivevamo un legame affettivo nuovo, come un cordone riformatosi in quel periodo che mi faceva credere di non essere mai cresciuta. Immaginavo che lei non sapesse quello che le stava accadendo e invece eravamo noi a non sapere, che lei, pur sapendo, faceva finta di niente. I suoi desideri erano ordini. Una volta ci disse che quando stava con noi il dolore era sopportabile. Se invecchiare è come diventare bambini, essere anche ammalati lo è due volte. Ammalati fa parte della vita, e noi siamo forza per loro che ci vedono sani. Mai abbandonare chi è in difficoltà, essere sempre presenti è il minimo che possiamo dare loro. Per questi ammalati anche il silenzio condiviso ha un grande valore, come la semplice presenza in casa. Hanno bisogno di piccole felicità, gesti veri, donati con intenzione. Solidarietà e affetto è anche questo, con i nostri cari ma anche con chi non è fortunato ad avere gente intorno. A volte anche la malattia può diventare una forma di discriminazione. “Il male che non perdona”, talvolta, può allontanare più di ogni altra cosa.

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