giovedì 10 agosto 2017

L’albero di noce a monte Faito

Filomena Baratto
di Filomena Baratto 

Vico Equense - Mi sono chiesta che cosa dovrebbe insegnare questa storia o se serva a far capire qualcosa, ma anche perché si scrive una storia, come in questo caso, personale, autobiografica. Diciamo che la scrittura, a volte inizia così, soprattutto quando la vita è così ricca di spunti e contenuti che la voglia di scrivere parte spontanea. A volte scrivere è una medicina, una cura, un modo di buttare fuori quello che più spesso teniamo dentro per non avere chi ci ascolti. Scrivere allora può essere un modo per farsi ascoltare e da tanti. Come se non bastasse un solo ascoltatore e avessimo bisogno dell’attenzione di tutti. Scrivere è una passione, uno strumento attraverso cui passa la nostra vita ed è cosa impossibile tenerla a bada proiettandola sull’esterno. Quello che attira è il nostro interno, lo scorrere dei nostri pensieri e di tutto quello che viviamo. Non c’è null’altro che ci interessi così tanto come noi stessi e ciascuno diventa lo specchio degli altri. Spesso crediamo che scrivere di noi sia una forma di esibizionismo o una perdita di pudore che ci lasci sprovvisti di difese. Non credo sia questo. Anche una storia di fantasia parte dalla realtà, la fantasia non è altro che una realtà trasformata, ha le radici proprio nella vita che si vive. E non si scrive nemmeno per guadagnare, la scrittura non rende così tanto se poi non si giunge a un grosse vendite. Quindi non è valido nemmeno il discorso di mettere i nostri fatti alla mercè degli altri. Per scrivere una storia autobiografica c’è bisogno di averla digerita, di averla capita e avere il bisogno di metterla in ordine. E’ come darle delle coordinate, inscriverla in un disegno, studiarne le dinamiche e le svolte, insomma un lavoro di restauratore e ingegnere ma anche psicologo allo stesso tempo. Questa storia ha dell’inverosimile, la protagonista procede nella sua vita con una forza smisurata fino alla fine. Era da scrivere per capirla e poi è una storia che io stessa ho conosciuto dopo i vent’anni. E’ la storia di una bambina che viene portata in un collegio di Vico Equense dal Cilento dove era nata e qui per allontanarla dalla sua famiglia dove erano rimasti il padre e i fratelli. Sua madre muore per metterla al mondo. Viene poi adottata e comincia la sua vita con molte difficoltà.
 
C’è la descrizione di un mondo rurale come era quello dell’Italia degli anni 60, un mondo declinato al maschile, un mondo fatto di pregiudizi e interessi oltre che ignorante. E’ un modo per far capire che l’ignoranza è la madre di ogni incomprensione e difficoltà. Che avere un’idea dei fatti che accadono significa saperli gestire mentre spesso ci affidiamo al caso, al momento, alle emozioni o anche agli interessi. La vita è un tessuto di cose, una complessità di valori e va presa nel suo insieme. La storia procede con l’accarezzare i personaggi tutti nelle storie, nei loro atteggiamenti senza mai abbandonarli a se stessi. E’ principalmente il punto di vista di una figlia che vuol capire cosa sia successo alla sua famiglia, perché i suoi genitori si sono lasciati. Ancora oggi che sembra una cosa normale e scontata, divorziare non è per niente un’azione accettata. Troppi interessi legano una coppia per giungere alla completa rottura e pensiamo a quel tempo cosa significava il primo divorzio della penisola. E’ una storia ricca di fatti che ancora oggi si vivono, come l’adozione, la paternità, la maternità, i rapporti familiari.

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