venerdì 5 gennaio 2018

La calza della Befana

di Filomena Baratto

Vico Equense - Crescendo i figli si allontanano dalle figure di Babbo Natale e della Befana, come se l’avanzare dell’età lì scoprisse impreparati al fatto che i due personaggi della loro infanzia non sono più credibili. Alle notti insonni, passate con gli occhi spalancati nel buio, per riconoscere il minimo fruscio o rumore al passaggio della Befana, si sostituiscono pensieri scettici in proposito che allontanano quei momenti magici vissuti da bambini. Anche i genitori si mostrano stanchi di quelle sceneggiate durante la notte, con lunghe ed estenuanti veglie per sistemare al meglio i doni ai piedi del letto. Crescendo, i ragazzi perdono l’incanto dell’infanzia, di quando si lasciavano ingannare a loro insaputa. Quando mamma e papà capiscono che non si possono più divertire come una volta nella regia della rappresentazione dell’Epifania in piena regola, allora vanno scemando l’intento riducendo la Befana a una magra e striminzita calza appoggiata da qualche parte della casa come unico elemento che ricordi la tradizione. Mia madre ricordava sempre a mio padre, quando ero bambina, di non dimenticarsi la calza, mentre lei pensava al resto. La regista era lei e non ha mai perso l’abitudine. Non si è mai dimenticata la calza, me l’ha sempre donata con grande piacere anche da adulta e sposata. Era un dovere ma fatto con amore, come dovrebbe essere ogni volta che doniamo qualcosa. Le sue calze sono state uniche: ricche di ogni genere di dolciumi, stracolme, di forme strane per quanto erano piene.
 
Da ragazza, con le mie sorelle la svuotavamo interamente sul letto e ci divertivamo ad assaggiare, imboccarci l’un l’altra, mercanteggiando quando volevamo a tutti i costi le cioccolate dell’altra. Tre calze enormi che si confondevano sulle coperte del letto. Passavamo lì il tempo a limitarne i confini, racchiudendo il contenuto di ciascuna, litigando per gli Smarties o i Mars. Si scartava fino a mezzogiorno la cioccolata, si selezionava quella che non piaceva, si giocava con le rondelle di liquirizia, chi tirava da una parte e chi dall’altra, e si assaggiava un po’ tutto, riempiendoci la bocca per paura di perderci qualcosa di buono. Se ne mangiava fino a quando i denti diventavano neri. Mi piaceva il suono della calza al tocco della mano, che faceva venire l’acquolina in bocca sapendo che, quelle carte che si strofinavano, erano piene di cioccolata. Da sposata, mia madre arrivava il giorno della Befana, con un serpentone nella busta, di mattina presto, quando ero ancora intenta a sistemare i giocattoli dei miei figli, e tutta allegra mi diceva:”Ho portato la calza alla mia bambina”. Strana sensazione sentirsi bambini da grandi e vecchi da bambini! Lei mi faceva sentire al centro dell’attenzione ancor di più quando, slacciando la calza, non c’era una sola cosa che non fosse di mio gradimento. Le leggevo negli occhi il piacere di darmi piacere. Voleva scoprirmi confusa e ancora pensata come quando ero bambina e al mio sorriso, al mio illuminarmi davanti a quelle dolcezze, era felice. Dopo aver letto sul mio volto tutta l’approvazione del suo gesto, ci lasciavamo andare a confidenze davanti a una tazza di caffè con anice, in una casa ancora silenziosa e assonnata. Impagabili momenti, che, nati dal pretesto della tradizione, portano a comprendere l’affetto nelle sue sfumature. Una calza per affermare che lei c’era, che la sua non era da paragonare a quella degli altri con le cose contate. Le altre calze erano piccole, particolari, lucide e quasi veniva voglia di non aprirle, tanto erano infiocchettate. La sua era sempre la stessa, quella di ogni anno che riempiva a suo gusto e che a festa finita riponeva per l’anno successivo. Quella calza è il più bel ricordo: a strisce colorate, che sapeva di zucchero, sempre uguale, mai una grinza né un buco con tutto quello che portava. E dopo qualche mese, ne usciva sempre un piccolo soldino di cioccolato bloccato da qualche parte e lei mi diceva: “Il bene della mamma è in tutte le cose, perché la mamma conosce la figlia, gli altri credono di conoscerla!” Quando mi parlava così, mi sentivo una privilegiata e dovevo aspettare un anno per un’altra manifestazione simile. Saranno le emozioni ricevute da quei momenti a voler trasmettere le stesse esperienze con gli stessi gesti agli altri. Così i miei figli ricevevano calze simili, solo che con loro mi divertivo organizzando una caccia al tesoro. Quando si svegliavano, dovevano seguire la mappa con le indicazioni per trovare la calza in qualche posto recondito della casa. L’abitudine si è persa solo per non trovarci più insieme in questa ricorrenza. Si cerca a tutti i costi di prolungare le emozioni della nostra infanzia mai sopite. Ecco il motivo per cui la calza della Befana va fatta con cura, fornendola di quello che piace veramente e non tanto per riempirla. Non va fatta distrattamente, visto che lì dentro c’è parte di noi, e da come si scelgono le cose, veniamo rappresentati. Tutti si aspettano la calza della Befana, piccoli e grandi. E non facciamo in modo che, per risolvere velocemente, con la scusa di non poter mangiare caramelle, o di fare la dieta, regaliamo carbone!

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