domenica 12 gennaio 2020

Come ti ammazzo il mulo

di Filomena Baratto

Vico Equense - A sentire dei muli ammazzati c’è qualcosa di incomprensibile e inquietante. Mio nonno materno ne aveva uno col quale percorreva, a salire e a scendere, il versante della montagna fino alla sua proprietà nella valle, al Tempone. Il mulo, un intreccio tra asino e cavalla, è molto resistente, trotta su sentieri impervi, in luoghi scoscesi e difficili da penetrare. Riesce a sostenere ritmi pesanti per lunghi tempi, in modo paziente. Ci sono zone montuose che non si potrebbero raggiungere altrimenti se non col mulo. Quello di mio nonno trasportava un basto ricco di provviste: acqua, pasti per i contadini, caciotte, frutti di stagione… Il tratto da fare tra la casa e la terra era di circa tre ore. Nel Cilento avere un mulo e un asino era come assicurarsi due persone fisse nel lavoro della terra. Se a quel tempo fosse accaduto di trovare un mulo sgozzato, sarebbe stata una tragedia, da leggere come la perdita di una persona cara. Chi poteva portare giù a valle l’occorrente per la semina, le vanghe, le asce, l’abbigliamento di ricambio? Chi poteva camminare ore sotto il sole, sui cigli di montagna e terreni dissestati? Tratti lunghi, da percorrere facendo attenzione alle rocce, alle pareti a strapiombo, ai punti pericolosi. Il mulo era una ricchezza alla stessa stregua della casa o della mandria. Nella sua vita adulta trasporta anche due quintali di soma e ci vuole esperienza per caricare il basto. Vive circa 30/35 anni, ma si sono anche casi di quelli che raggiungono i 50. Il mulo di mio nonno ha visto tre generazioni ed è morto di vecchiaia. Aveva una stalla di tutto rispetto, seguiva un orario giornaliero di lavoro e il nonno lo trattava come un piccolo principe.


Non ha mai visto un veterinario, conosceva solo i rimedi del padrone. Lungo il sentiero per scendere a valle e ritorno a casa, mio nonno a voce alta gli raccontava la giornata, ponendogli poi domande, a volte stupide, altre serie mentre, strada facendo, si arrotolava la cartina col tabacco della sua terra da fumare. Lo scoprii una volta che lo aspettavo sulla soglia di casa e sentii le voci che salivano dal basso. Lui veniva “bel bello” dalla terra fumando, tenendolo per le briglie, mentre discorreva di tabacco, vino e olio, lavori da fare e quanto mancava alla fine per il meritato riposo. Al rientro lo puliva con la paglia, lo abbeverava, lo sfamava e lo sistemava sul suo giaciglio in una grande stalla adiacente all’abitazione. Dalla casa si sentiva poi il bofonchiare del mulo, i suoi movimenti prima di trovare la giusta posizione per dormire. Il mulo era parte della famiglia e quando si chiedeva al nonno perché voleva vivere da solo, rispondeva che non lo era, che il mulo non poteva vivere al di fuori di quel contesto, e della città non sapeva che farsene. Se preso con modi burberi e nervosi, il mulo rispondeva con un calcio, fatto grave per aver oltrepassato il culmine della pazienza. Lo stato d’animo del padrone è sempre avvertito dal mulo e tra i due si stabilisce una sorta di simbiosi. A Roma, a Villa Borghese, c’è il monumento a Iroso, l’ultimo mulo degli Alpini, morto il 29 aprile del 2019 e definito “umile eroe”. Molto evidentemente del mulo non si è imparato niente, a cominciare dalla sua pazienza, tenacia, resistenza. A sentire della morte dei muli non c’è più religione, come diceva Machiavelli nell’VIII capitolo de Il Principe, parlando di Agatocle, tiranno di Siracusa, che, per giungere al potere, ammazzò i cittadini, tradì gli amici senza pietà e senza religione. Ma anche il Machiavelli cade in contraddizione se invoca la religione ma poi è saldamente legato alla sua idea che “il fine giustifica i mezzi”. Ammazzare un mulo significa perdere la pazienza, pretendere, punire, infliggere, quindi imbarbarimento. Se qualcosa del genere fosse accaduto al mulo di mio nonno, ne avrebbe fatto una questione d’onore. Non ha altre spiegazioni.

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