martedì 21 gennaio 2020

Pinocchio

di Filomena Baratto

A chi verrebbe in mente di creare un burattino con un pezzo di legno avuto in dono? Chi si darebbe così tanto da fare? Un falegname avrebbe dovuto pensare a trarne un oggetto utile: uno sgabello, un tagliere, un attaccapanni. Geppetto non ha bisogno di oggetti, ma di qualcosa che pulsi, che sprizzi vita. Lo taglia con precisione e cura e quando finalmente porta a termine il lavoro, quello parla. E per dirgli cosa? Che gli faceva male. Eh sì, creare fa male. E fa male anche staccarsene. Fino a quando intaglia, assottiglia, pialla, Geppetto è felice, poi, quando il piccolo legno prende sembianze umane, cominciano le preoccupazioni. E’ vero, si tratta di un burattino privo di vita, eppure per il fatto di averlo creato, già gli vuole bene. Appena nato vuole che vada a scuola. Non pronuncia nemmeno le prime parole che già ha un abbecedario sotto il braccio, un cappello di mollica, un vestito di carta e una cartella per la scuola. E’ lì che si forma la vita dei piccoli. Così comincia l’avventura del burattino bambino, un viaggio dentro la vita con tutte le sue difficoltà ed emozioni. Pinocchio gli sfugge subito di mano, ma non demorde, si impegna a seguirlo per il mondo e di lui si occupa e preoccupa. Il burattino non resiste alle tentazioni e presto perde la strada. In suo soccorso giunge la Fata Turchina che lo rassicura e lo mette in guarda soprattutto dalle bugie. La sua lezione è necessaria, sì, perché il bene va insegnato, non lo sai di tuo, non sempre lo riconosci o sai come praticarlo in un mondo dove tutti ti fanno del male.
 
La fata è la mamma che Pinocchio non ha avuto, che si presenta ora, nel momento del bisogno. Poi le strade della vita possono ingannare. Non basta la mamma, c’è bisogno di una coscienza che si formi forte e chiara, compito ingrato affidato al Grillo Parlante. Il pericolo è sempre dietro l’angolo, la paura di crescere blocca ogni progresso, finendo così per perdersi. E alla fine Pinocchio viene inghiottito dalla balena, entrando in quella pancia enorme, dove finisce anche Geppetto. Ora quei due esseri che sembravano così distanti, si animano di spirito vero, si alimentano di quello che l’uno rappresenta per l’altro. Dopo tante peripezie, quel burattino diventa umano, prova le stesse emozioni, gli stessi sentimenti del padre. Pinocchio è una fiaba, ma anche la storia di ognuno di noi. Geppetto anima il burattino come Pigmalione la sua statua e si crea il figlio che gli manca, come premio delle sue attese. La perfezione di questo rapporto sta nel cercarsi, nel desiderio di andarsi incontro. Lo crea, lo veste, lo indirizza, lo aiuta, lo cerca, lo ricerca e spende la sua vita per lui. Nella storia i personaggi entrano in scena quando se ne sente il bisogno, non sono in ordine come nella vita. Un padre ha cura del figlio che mette al mondo non come sua appendice, ma come una forza rigeneratrice. Il senso di paternità in Geppetto è formativo, è simbolico, è universale. Nessun’altra storia diventa a questo punto così umana come Pinocchio. Come lui si nasce burattini, sta a noi infiammarla di vita con la conoscenza e l’esperienza, la ragione e il cuore. Ecco a cosa serve un padre, a indirizzare la vita, che dopo aver ricevuto l’accoglienza nell’utero materno e aver conosciuto il calore si apre al mondo. Geppetto è la guida ideale per procedere fianco a fianco. Perché se è vero che per fare un figlio c’è bisogno di un padre, per diventare padre c’è altrettanto bisogno del figlio in un percorso insieme, con tutti gli ostacoli, le paure e le inadeguatezze. Un padre che resti accanto come un alfiere, se necessario farsi pedina, cavaliere, ma sempre il suo re. Già Apuleio ne L’asino d’oro aveva introdotto le trasformazioni attraverso cui Lucio, il protagonista, diventava uomo, con una lettura mistico- allegorica del romanzo. Come Pinocchio, Lucio trascende nell’esperienza del male prima di tornare all’umano e pertanto alla parte divina che è in lui. Sant’Agostino menziona nella sua De civitate Dei l’opera di Apuleio: “Lucio avendo bevuto un filtro magico, fu trasformato in asino: l’animo suo, però, rimase sempre quello di un uomo”. In Apuleio il finale si fa profondamente religioso perché l’uomo deve liberarsi dalle serviles voluptates e dalla curiositas improspera, dove per curiositas, quella che guida Lucio a trascendere sempre di più nel male, è in contrasto con la religio, che risulta essere la luce della salvezza. Sicuramente dalla lettura di questo testo Carlo Lorenzini, più conosciuto come Carlo Collodi, avrà tratto materia per il suo Pinocchio. La fiaba è intrisa di simboli e ricca di interpretazioni e, prima ancora parla del rapporto padre-figlio, descritto nelle sue sfumature. Dovremmo leggere spesso le storie non solo ai figli, anche a noi stessi, traendone esattamente quegli insegnamenti che andiamo cercando per loro e che possono essere di grande giovamento anche per noi.

Nessun commento: