Fonte: Paolo Macry dal Corriere del Mezzogiorno Napoli
L’Italia è in guerra e naturalmente, una volta assunta dalle massime istituzioni, la scelta va rispettata. Ma il percorso politico non convince. Poco si sa di quei ribelli che abbiamo deciso di sostenere a mano armata, se non che sauditi ed egiziani se ne stanno servendo per regolare vecchi conti con Gheddafi. Assai difficile, del resto, è il ruolo dell’Italia, paese ex-colonizzatore, dirimpettaio e importante partner economico della Libia. In questo quadro, non può che stupire la rapida conversione di Berlusconi dal baciamano al conflitto armato e, dall’altra parte, il muto allinearsi di un Pd già fortemente ostile alle guerre di Bush. Ma c’è anche un problema che riguarda specificamente il Sud italiano. Di fronte al groviglio africano, com’è noto, la Lega ha disatteso le decisioni del proprio stesso esecutivo e ha detto no alla guerra, con un atto formalmente temerario, che pone però un serio problema politico al paese e in particolare al Mezzogiorno. Per quanto destinata a non influenzare gli eventi bellici, la scelta di Bossi segnala nel più forte dei modi una «questione settentrionale» che, spesso intrisa di umori secessionistici, non intende restare in silenzio neppure sul piano tipicamente nazionale della politica estera.
All’opposto, il drammatico ciclo delle insurrezioni maghrebine non ha avuto alcun riscontro da parte delle lassi dirigenti meridionali, sebbene Napoli sia in predicato per ricevere da Stoccarda lo scomodo testimone di centrale operativa dell’operazione anti-Gheddafi e le basi siciliane e pugliesi abbiano il compito di ospitare le forze aeree dei «volonterosi». A settant’anni dagli sbarchi del 1943, il Sud torna in prima linea. E il rischio, in termini di flussi demografici, di eventuali reazioni militari libiche e perfino di rappresaglie terroristiche, è serio. Ebbene, mentre l’incendio si allargava, nessuno di coloro che sono stati eletti a gestire quotidianamente e strategicamente i territori meridionali, ha sentito il bisogno di dire qualcosa. Non che Stefano Caldoro, Nichi Vendola e Raffaele Lombardo — i governatori da ieri in trincea — dovessero formulare una politica estera meridionale o addirittura regionale. E tuttavia, con lo spettro di una guerra che potrebbe coinvolgere direttamente Campania, Puglia e Sicilia, da loro sarebbe stato lecito attendersi iniziative politiche (magari concertate) in grado di esercitare un qualche peso sulle scelte dei palazzi romani. La geopolitica, dopotutto, costituisce il punto di sintesi di istanze che fanno riferimento a popolazioni e territori. Certo è che un ceto dirigente sempre pronto a finanziare convegni sul pensiero meridiano, concerti pacifisti e fondazioni multi-culturali meglio farebbe, nei frangenti della rivoluzione e della guerra, a preoccuparsi di nuove politiche migratorie, di forme speciali di sicurezza pubblica, di strategie economiche commisurate ai sommovimenti in corso. Adeguando così il proprio ruolo alla drammaticità della situazione. Sarebbe un modo per rispondere alle crescenti inquietudini delle popolazioni e costituirebbe il responsabile controcanto a quell’opinabile (ma astuta) decisione della Lega di sfilarsi dai giochi di guerra, quasi fossero una questione che riguarda i confini meridionali del paese.
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