Fonte: di Paolo Macry da il Corriere del Mezzogiorno
Ragionare di giustizia nell’Italia di Berlusconi è pericoloso. Si rischia di finire tra l’incudine del giustizialismo forsennato e il martello di un garantismo filisteo. Ambedue di marca politica. Ma la sentenza sul caso dei rifiuti tossici trasportati dalle regioni del Nord in Campania è troppo clamorosa per passare sotto silenzio. Venerdi scorso, un gup di Santa Maria Capua Vetere ha prosciolto tutti i 95 imputati. Il che scatenerà presumibilmente una levata di scudi contro gli inquinatori e la camorra, che si sono dimostrati più forti della legge. Il fatto, però, è un altro: nel corso di ben otto anni, diversi pm, la Dda, la polizia, i carabinieri e infine un giudice non hanno trovato le prove del disastro ambientale e dei legami con la criminalità. Ovvero, dati alla mano, la narrazione di Gomorra è fantasiosa. Un romanzo non è un tribunale, sembra dire la sentenza del magistrato sammaritano. Ma la questione va al di là del caso specifico. Quanto è accaduto nei palazzi di giustizia di Napoli e dell’hinterland in questi anni disegna procedure e approcci che sembrano discutibili. I pm hanno dato vita a una sorta di inquisizione perpetua, ma spesso non sono apparsi in grado di portare a compimento il lavoro.
Partendo da ambiziosi teoremi accusatori, hanno mobilitato uomini e risorse tecnologiche e poi però sono approdati alla mancanza delle prove, alla loro irrilevanza penale, a prescrizioni derivanti dai tempi infiniti delle indagini. E intanto tutti diventano inquisiti. Per la storia dei rifiuti, sono finiti sotto inchiesta commissari straordinari, prefetti, presidenti di regione, sindaci, imprenditori. Ma nessuno al momento risulta condannato. Nel frattempo, quelle stesse procure hanno aperto indagini per gravi reati contro Nicola Cosentino, finendo per criminalizzare l’intera destra campana. Il problema è che, a distanza di diversi anni, Cosentino non ha ancora avuto alcuna sentenza, né di condanna né di assoluzione, mentre nel senso comune è già il capo dei casalesi. Ma anche nel caso Tarantini-Lavitola, tutti i personaggi finiti nell’inchiesta — premier, faccendieri, escort, manager pubblici — appaiono già condannati dall’opinione pubblica, pur non essendo chiaro, al di là dei comportamenti indecorosi di un presidente del Consiglio e di centomila telefonate, quali siano i reati e quali le prove. Certo è che l’effetto polverone produce conseguenze incresciose. Gli inquisiti non sono presunti innocenti, ma colpevoli. E, se mai ricevono una sentenza favorevole, diventano colpevoli impuniti: gente che l’ha fatta franca. L’opinione pubblica, cioè, non soltanto equipara un’inchiesta giudiziaria a una condanna, ma appare insofferente nei confronti delle assoluzioni (e sono molte, quando si arriva davvero al processo). Ieri abbiamo saputo che il teorema di Saviano era fragile. Domani potremmo scoprire che Cosentino non ha commesso alcun reato. Ma forse non cambierebbe molto. L’inquisizione, come nel suo classico modello storico, rischia di imporre una presunzione di colpevolezza indelebile, gettando ombre pesanti sullo stato di diritto e, non di meno, sull’etica pubblica. Il che, in tempi di maretta politica e di pressione finanziaria, è un’arma impropria che potrebbe venire usata contro l’intero paese.
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