Fonte: Nino Bertoloni Meli da Europa.it quotidiano
Domanda: ha ancora un senso oggi il tesoriere di partito? Corollario: c’è ancora bisogno di un “fiduciario di cassa” che risponde direttamente e solamente al segretario del partito? Il problema persisteva già prima dell’esplodere del caso Lusi, rimanda a quel che sono e dovrebbero essere i partiti politici odierni, ma comunque lo scandalo dell’ex tesoriere della Margherita fresco fresco espulso dal Pd ripropone la questione in tutta la sua portata e può offrire spunto per riflessioni varie. La figura del tesoriere di partito è legata indissolubilmente all’idea sacrale di partito, un’idea e un’ideologia secondo la quale tutto è lecito, nei limiti della legge, beninteso, pur di procacciare fondi al partito medesimo. Senza neanche troppo rovistare nella storia, il giovane Stalin faceva le rapine in banca non perché rivelasse doti delinquenziali fin dall’adolescenza, ma perché il fine principale e ultimo era permettere la sopravvivenza del partito bolscevico che doveva fare nientemeno che la rivoluzione. Rientra in questa casistica, ma per contrasto, il famoso caso di Giulio Seniga, braccio destro di Togliatti, che scappa con la cassa del Pci perché il Migliore, a suo dire, aveva «tradito la rivoluzione», e quindi era giusto per l’uomo che causò la fine politica di Pietro Secchia sottrargli il bene prezioso del finanziamento, come a dire «no rivoluzione, no cassa».
Ma senza riandare ai casi clamorosi, il rapporto fiduciario del tesoriere con il segretario del partito, almeno a sinistra, è stato costellato da un itinerario di luci e ombre, dove queste ultime prevalevano di gran lunga sulle prime. Nel suo Rendiconto, Claudio Petruccioli racconta e ricorda di quelle riunioni di segreteria al termine delle quali Alessandro Natta guardava i presenti negli occhi e intimava «adesso uscite tutti e lasciatemi solo con il tesoriere che dobbiamo parlare di cose serie». E quando Antonio Di Pietro fece trapelare al suo solito che esistevano “conti svizzeri” del Pds, i dirigenti del partito sorto dal Pci passarono nottate a interrogarsi su che cosa potesse esserci di vero, se sul serio esisteva un tesoretto all’estero e in quel caso come comportarsi, salvo poi tirare un sospirone di sollievo nell’apprendere che no, in Svizzera non c’era nulla. E ancora, come non ricordare la polemica tra Goffredo Bettini e Ugo Sposetti, quando quest’ultimo fu accusato dall’allora braccio destro di Veltroni di non voler scucire un euro a favore dell’allora leader del Pd, il quale a sua volta aveva nominato un nuovo tesoriere di fiducia nella persona di Mauro Agostini? Acqua passata, episodi di trascorse tesorerie, ma che ripropongono nudo e crudo la domanda: ha ancora un senso il tesoriere unico che risponde solo al leader? E questo per di più in una fase in cui i partiti stessi si stanno domandando come perseguire nuove strade di partecipazione diffusa, danno vita alle fondazioni, decentrano, coinvolgono, puntano alla famosa “casa di vetro” anche per quanto riguarda il finanziamento. Il Pd attuale il problema sembra esserselo almeno posto. Sicché alla domanda iniziale si può dare una prima risposta: nel momento in cui Antonio Misiani, il tesoriere del Pd, rende noto che il bilancio del partito è sottoposto alla verifica di una società esterna, la Price Waterhouse Coopers, «la stessa che certifica il bilancio di Bankitalia», è chiaro che la figura sacrale del tesoriere che risponde solo al leader subisce un colpo forte, mentre ne acquista il partito stesso in credibilità e trasparenza. Nella stessa direzione si muove la decisione di rendere pubblici on line i conti del Pd, sottoposti così a un vero e proprio controllo pubblico. «E sia chiaro, chi sgarra perde il diritto ai rimborsi elettorali», ha avvertito Misiani.
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