Fonte: Aldo Cazzullo da Il Corriere della Sera
E un 25 Aprile meno polemico e più sentito rispetto agli ultimi anni, questo che coincide con il settantesimo anniversario della Liberazione. Come se le tragedie del Mediterraneo, la morte di Giovanni Lo Porto, e in generale i primi segnali di ricostruzione dopo una crisi devastante avessero contribuito a creare un minimo di condivisione non tanto tra i partiti, quanto nella vita pubblica. Una memoria condivisa della Resistenza è impossibile. Perché la memoria non si può cambiare, e ognuno ha la sua. La memoria di chi ha avuto le case bruciate a Boves, a Lanciano, ad Acerra, a Civitella Val di Chiana, a Gubbio, a Sant'Anna di Stazzema, a Marzabotto non può essere la stessa di chi quelle case ha bruciato o aiutato a bruciare. È possibile però una conclusione condivisa: chi ha combattuto i nazisti ha fatto la scelta giusta; chi, magari convinto in buona fede di servire la patria, ha combattuto accanto ai nazisti, ha fatto la scelta sbagliata. Può apparire un'ovvietà; ma è un'ovvietà che in Italia è spesso stata discussa. Se poi oggi si parla liberamente delle pagine nere della guerra di liberazione, che ci sono state e sono rimaste a lungo taciute, questo non indebolisce ma rafforza il sentimento comune. Che però non è acquisito per sempre. Lo conferma l'assurda polemica contro la Brigata ebraica, che deve poter sfilare sempre e ovunque con onore, visto lo straordinario contributo che gli ebrei diedero alla Resistenza come partigiani e come combattenti nelle file alleate: era un ragazzino ebreo Franco Cesana, che si unì ai patrioti quando non aveva ancora tredici anni, e mori per salvare il suo comandante sulle montagne sopra Modena.
Qualche strascico polemico rimane anche perché della Resistenza si è fatto troppo spesso un uso politico. La si è evocata ogni volta che si intendeva «resistere» contro qualche nemico. La si è impugnata per cause legittime, magari giuste, ma che non c'entravano nulla con la lotta al nazifascismo. Questo, insieme con il silenzio a volte calato sulle figure dei liberali e dei cattolici, ha reso più difficile che si affermasse l'idea corale della Resistenza, sostenuta dal lavoro politico culturale di Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano, eredità ora raccolta da Sergio Mattarella. Oggi il vero avversario di questa visione corale, più che le nostalgie, le facili assoluzioni, le equiparazioni impossibili, è l'indifferenza. I giovani, a parte qualche fanatico male informato, non hanno nulla contro la Resistenza; molti però non sanno che cosa sia. Non hanno mai sentito parlare dei martiri di Fiesole, tre carabinieri che vanno a farsi ammazzare in una domenica dell'agosto 1944, alla fine di un pomeriggio pieno di sole, per salvare dieci ostaggi civili. Non sanno che cosa dovette sopportare don Pietro Pappagallo, ucciso alle Ardeatine dopo aver confessato e assolto i compagni sul camion che li portava a morire. Non hanno mai ascoltato la storia delle suore Giuste tra le Nazioni per aver nascosto centinaia di ebrei, ne della madre superiora di San Vittore, suor Enrichetta Alfieri, arrestata per aver aiutato i detenuti, compresi Indro Montanelli e Mike Bongiorno. Gino Bartali che pedala con i documenti falsi per i perseguitati nella canna della bicicletta, la partigiana cattolica Paola Del Din che viene paracadutata oltre la linea Gotica, i fucilati di Cefalonia, le lettere degli internati nei lager e dei condannati a morte, che non sono retoriche perché confermate dai fatti: la Resistenza è più viva che mai. Siccome ogni generazione ha la sua guerra da combattere, e quella contro la crisi e il degrado morale del nostro Paese è ancora da vincere, tocca a noi — ora che i resistenti se ne stanno andando — trasmettere il loro patrimonio morale ai nostri ragazzi.
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