Fonte: Paolo Macry da Il Corriere del Mezzogiorno
Nell'Italia della transizione dalla seconda alla terza repubblica, come spesso accade durante le fasi di passaggio epocali, la lotta politica è diventata un esercizio di equilibrismo senza rete, rischioso, poco prevedibile, per certi versi paradossale. Basti vedere quel che sta accadendo in vista delle amministrative del 2016. La posta in gioco è alta: il governo delle grandi città. Ma i tre poli che oggi monopolizzano l'elettorato - sinistra, destra e cinque stelle - appaiono, ciascuno a modo suo, in mezzo al guado. Incerti, divisi. Al punto che sembra lecito chiedersi se davvero vogliano vincere le elezioni. Prendiamo il Municipio di Napoli, uno degli oggetti del desiderio. Cosa stanno facendo partiti e grillini per accaparrarselo? Quanto sono realmente interessati alla poltrona di palazzo San Giacomo? Al momento, la destra non si è espressa. Di fronte all'autocandidatura di Lettieri, gli endorsement sono stati cauti, sporadici, reticenti. Nel migliore dei casi, la corsa dello "scugnizzo" sarà sopportata senza alcun entusiasmo dagli storici notabili della destra napoletana. Ma potrebbe anche essere impallinata nel segreto dell'urna. Malgrado gli oltre trenta punti raccolti pochi mesi fa dalla "coalizione caldoriana", non sarà facile per Lettìeri superare il primo turno. Per necessità o per calcolo, i suoi partiti di riferimento latitano. Ancor più singolare l'atteggiamento del M5S. Come peraltro a Roma, i grillini appaiono disinteressati a mettere in campo i propri pezzi da novanta. Hanno già fatto sapere che, per designare il proprio candidato, si affideranno al voto telematico. Scelta a dir poco ambigua per un movimento con il vento in poppa.
A Napoli, nelle passate regionali, perfino la sconosciuta Valeria Ciarambino sfiorò il 25 per cento. Ed è opinione comune che oggi un nome noto al pubblico televisivo come Luigi Di Maio andrebbe con facilità al ballottaggio e si giocherebbe con buone chance lo stesso primo premio. Ma è davvero questo che vuole Grillo? Quanto al Pd, sta consumando ogni energia nelle proprie contrapposizioni interne.
Qui di potenziali candidati ce n'è in abbondanza e c'è soprattutto l'annunciato ritorno di Bassolino. Ma proprio sull'ipotesi dell'ex sindaco il partito si è vistosamente lacerato. E le guerre intestine prevalgono nettamente sulla valutazione di chi possa essere il candidato in grado di vincere la partita elettorale. A pochi mesi dal voto, il Pd è solo con i propri guai. E, come la destra e i pentastellati, sembra avviarsi ad una sorta di harakiri. A meno che non sia proprio questo l'obiettivo della sua classe dirigente. La strategia della rinuncia, peraltro, è meno irragionevole di quanto non appaia. Essa sembra l'effetto -inevitabile e tuttavia calcolato- della disgregazione dei partiti. Dopotutto, c'è una qualche logica nella scelta di rifugiarsi sotto l'ombrello di una candidatura non politica (Lettieri) o di impedire la crescita di un leader vincente (Di Maio) o di non concedere spazio a personalità in grado di rottamare gli altri notabili del partito (Bassolino). In tutti e tre i casi, il costo dell'operazione può anche essere la perdita di palazzo San Giacomo, ma il vantaggio è la conservazione degli assetti locali di potere, ovvero degli attuali equilibri interni della destra, della sinistra e dei Cinquestelle. Notabili e micronotabili resterebbero al proprio posto, evitando il terremoto che su quegli equilibri finirebbe per provocare la conquista della sindacatura. Tutto questo ha molto a che fare con lo stato precario del partiti e con il dilagare, perfino tra i grillini, delle rivalità personali. Ma certo la transizione alla terza repubblica e l'avvento imprevisto di un assetto tripolare stanno complicando il quadro. Con ogni evidenza, gli attori del tripolarismo si muovono su un terreno poco conosciuto. Rispetto al quale, si capisce come l'establishment politico possa preferire una sconfitta onorevole a una vittoria densa di incognite. Il che significa, in ultima analisi, la difesa dell'esistente.
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