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domenica 8 maggio 2016

Mia madre

di Filomena Baratto

Vico Equense - Una volta, in terza elementare, a scuola, confezionammo un cuore di velluto con su una rosa. Era un piccolo cofanetto per la festa della mamma e quando glielo portai le brillarono gli occhi. Quella scatola diventò il simbolo del nostro amore. Era posto su di una panca con dentro le caramelle, il suo posto fisso e nessuno si sognava di toccarla. Prima per esserne io la guardiana e poi per la sacralità che acquistano le cose della mamma. Quello è stato il tempo in cui mia madre era per me tutto. Non c’era cosa a cui lei non assolvesse. Eppure, malgrado fosse una donna dolce, non lo è mai stata con me. Mai un vezzo, una carezza, un abbraccio, una “smanceria” come si usa dire. Il suo amore era diverso, si manifestava in altri modi, con insegnamenti, preoccupata di tradurmi la vita. Questo l’ho capito da grande, ma allora era una tragedia, e spesso ci scontravamo anche duramente. Non mi accompagnava a scuola, le bastava guardarmi dal balcone, visto che era di fronte, e mi scortava con gli occhi fino a dentro. Calava la pasta qualche minuto prima che uscissi e appena tornata c’era un profumo di cucinato fin giù alle scale. Prima di sedermi, mi disinfettava, le mani, il viso, metteva via il grembiule. I compiti li facevo sempre da sola e quando si confrontava con le vicine o le altre mamme di scuola, diceva che io non avevo bisogno di essere controllata, ero capace di fare tutto da sola. Così anche alle scuole medie e superiori. I ragazzi non dovevano avvicinarsi a me e un giorno la vidi arrivare a scuola, in prima media, per fare una scenata a un ragazzo che mostrava interesse per me. Mi ammoniva sempre dicendo che non dovevo fermarmi a parlare con nessuno, né accettare passaggi, comprese le famose caramelle dagli sconosciuti. Oggi le sue apprensioni farebbero ridere qualsiasi quindicenne, ma allora era normale.
 
Una mamma apprensiva, preoccupata, ma che confidava nella mia maturità, diceva che ero più di un’adulta. Col tempo sono diventata il suo specchio, l’espressione di tutto quello che voleva dalla vita e ci siamo ritrovate donne. La vita corre troppo in fretta e quando vuoi bloccare il tempo per capire e stringere le cose, quelle cose vanno via per sempre. Io che ho sempre creduto che lei fosse una certezza su cui contare, invece è venuta a mancare quando meno me lo sarei aspettato, ancora giovane e bella, nel pieno della sua vita, a me, che l’ho avuta così poco. Sono quelle certezze che tutti noi abbiamo e che invece si rivelano delle precarietà. Tutto ruotava attorno a lei anche se non mi diceva mai di volermi bene, se mi dimostrava il suo amore con modi ruvidi, con un linguaggio tutto suo. Il nostro confronto più bello è stato da donna a donna. Allora ho capito che gli errori di un genitore, non sono poi tali quando diventi adulta e li vedi da un’ottica diversa. L’ho compresa, sono stata più umana, più affettuosa, dolce, me stessa. Non ho mai accettato la sua morte, vissuta come il più grande tradimento della vita, di cui non conoscevo il valore prima. Mi sono sentita più vulnerabile, prendendo atto che la vita è anche sofferenza, solitudine, perdita di cose importanti. Sono andata alla ricerca dei ricordi più belli, dove è vero che non c’erano smancerie né complimenti, né abbracci e nemmeno baci, ma c’era il suo sorriso, la sua dolcezza, quell’essere bambina matura, saggia… Rivedo la sua forza, la precisione nelle cose, gli esempi, gli insegnamenti, le ansie che le davo, le preoccupazioni. Ricordo i suoi moniti, le sue parole quando cercava di farmi capire anche situazioni più grandi di me, gli acquisti per me e come li motivava e le sue frasi, i proverbi, i motti, il suo modo di vedermi , di descrivermi, di quanta verità ritrovo nelle sue parole ancora tutte rimaste in me. “A mamma te mazzeca ma nun te sputa”mi diceva sempre quando c’erano incomprensioni tra noi” Poi la sua malattia, rapida, nemmeno il tempo di abituarmi che già era andata via. Un giorno poco prima che finisse, ci fu la sua dichiarazione d’amore per questa figlia che lei aveva sempre bistrattato credendo di non aver bisogno di nulla, di essere brava di mio, di essere saggia più di lei, racchiusa tutta in una domanda che mi fece e che mi illuminò: “Ma tu mi vuoi bene?”. La guardai incredula e le dissi anch’io per la prima volta quanto le volessi bene. “Lo so, lo so che me ne vuoi, tu sei una figlia generosa e stupenda, nessuno più di me lo sa, ma me lo devi dire. Nessuno mai mi ha detto di volermi bene, nessuno!” Compresi in quel momento il motivo per il quale mia madre mi aveva trattato sempre con freddezza, in modo rigido, glaciale. Molto probabilmente non si era mai sentita amata, e questa insicurezza di fondo non glielo faceva nemmeno dire alle persone che lei voleva bene. Le cose belle vanno dette, vanno strillate, vanno rincorse, trattenute. Spesso passano e nemmeno ce ne accorgiamo. Per me quel giorno è stata un’epifania, e da quel giorno tutto il passato ha acquistato un nuovo colore. Ricordare mia madre dopo quella rivelazione è stato un rivivere tutto sotto una luce nuova, passando in rassegna ogni piccolo momento. Forse se mi avesse abbracciato tutti i giorni, mi avesse riempita di complimenti e fatte tutte quelle smancerie e vezzi che sono solite fare le mamme, non l’avrei capita così profondamente come poi è successo. Nel nostro rapporto era lei la bisognosa di affetto e non poteva manifestare quello che non aveva mai ricevuto. Una delle leggi dell’amore, è che l’amore è contagioso, ama chi è amato, chi ha ricevuto, e a cui è stato insegnato a donare il bene senza tornaconto. La lezione dell’amore è la più difficile e non si è mai maestri, né bravi abbastanza in questa materia. Ogni festa della mamma ricordo la mia scatola rossa di velluto che le regalai in terza elementare, fatta con le mie mani, diventata un oggetto cult della nostra casa. In fondo regalare il muscolo cardiaco è proprio come rappresentare la curva dell’affetto: contraendosi il cuore produce energia in tutto il corpo.

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