di Filomena Baratto
Vico Equense - Tempo fa andavamo a teatro con una coppia di amici con i quali avevamo l’abitudine di passare per la Galleria Umberto a gustare il babà prima dello spettacolo. Il nostro amico Roberto, da buon napoletano ha due passioni: il mare e Napoli e con lui abbiamo scoperto tanti posti ma soprattutto ci ha fatto conoscere l’arte pasticciera napoletana. Il babà a Napoli è un culto, alla stessa stregua del caffè, della sfogliatella e della pizza e mette d’accordo tutti. Non lo faccio spesso, ma quando accade, sembra di stare a preparare l’altare, cosa che non mi succede con la preparazione di altri dolci. Mi circondo di tutto l’occorrente e sembra l’inizio di una celebrazione.
Il babà non nasce a Napoli, eh no, ed ha anche un padre, il re polacco Stanislao Leszczinski, la cui figlia, Maria, andò in sposa a Luigi XV, re di Francia. Il matrimonio della figlia gli fruttò, nel 1738, con la Pace di Parigi, il Ducato di Lorena, una magra consolazione dopo aver perso il trono, ancor di più pensando che dopo la sua morte sarebbe passato alla Francia. Pur essendo un uomo colto e volto alle arti e alle lettere, non ebbe grande fortuna nei movimenti politici del tempo e finì per stare a spasso. Una delle sue consolazioni fu la passione per la cucina ma anche una gran voglia di dolci, forse per colmare quel vuoto di trono, e così tra un dolce e l’altro, che non si faceva mancare, sperimentò di inzuppare il kugelopf, dolce per metà brioche e metà panettone, nel madeira. Non contento provò a far lievitare la pasta ben tre volte aggiungendo uvetta e zafferano.
Anch’io provo a fare il babà e comincio così: sciolgo il lievito col latte, poi aggiungo zucchero, uova, metà farina, e sale. Una volta sbattuto, aggiungo il burro sciolto, infine il resto della farina e mescolo energicamente. A questo punto lascio lievitare per un’ora e mezza in uno stampo e quando salirà fino a un 1 cm dal bordo, lo inforno a 200 gradi per una mezz’ora.
Dopo averlo sfornato e raffreddato per un quarto d’ora, aggiungo lo sciroppo raffreddato per bagnarlo. Gli ingredienti: 240 g farina, 80 g burro, 40 g zucchero, 4 uova, 20 g lievito di birra, 4 g sale fino. Per lo sciroppo al rhum, 30 cl acqua, 160 g zucchero, 1,5 dl rhum. Questa è la ricetta per dieci persone. Questa è la versione “Savarin”, la ciambella babà, nata a Parigi ad opera di Jean Anthelme Brillat-Savarin, senza uvetta, ma con il burro e una spennellata di marmellata di albicocche. Può sembrare una ricetta semplice e veloce, ma la pasta di questo dolce deve lievitare bene e rivelarsi morbida, un aspetto fondamentale. Ed è proprio la morbidezza a contraddistinguere un buon babà che mette tutti d’accordo. Noi lo mangiavamo al volo e, mentre gustavamo, avevamo davanti la vetrina con un’ampia scelta, in modo da sapere già quale prendere dopo ce n’era per tutti i gusti. Quando ne avevamo buttati giù un bel po’, tra grandi e piccoli, ci allontanavamo se non altro per il pericolo di arrivare tardi e lasciavamo i nostri “babbatucci” con dispiacere.
La sua forma non ha un motivo meno originale della ricetta, difatti prende spunto dalla Cupola di Santa Sofia a Costantinopoli, mentre il nome che assume è quello di Alì Babà, tratto da “Le mille e una notte” libro preferito del Re, ma lentamente rimase solo Babà. Un altro motivo del nome fu che, per la mollezza della pasta, il dolce assomigliasse a una vecchia signora e pertanto chiamato babà. Il re parlò proprio di questo con Voltaire:
“Ho diviso i giorni in ore e le ho riempite di emozioni, di cose degne di memoria, di cose fatte, ma anche di cose solo immaginate. Questo lasciamo di noi; anche l’Alì Babà. Non è cosa degna di un Re? Lasciamo questi pensieri ai cortigiani e agli intolleranti; a chi pensa di dedicare la vita alla carriera, a chi se l’accorcia al servizio di cose che credono di dominare e di cui sono solo le dileggiate e luccicanti vittime. A me invece ricorderà la luna turca della notte di Costantinopoli, mi porterà il sapore dell’amicizia con il Re di Svezia, e i canditi riproporranno l’eleganza e la preziosità dei vostri ragionamenti […] Lo scorso mese mi hanno presentato un Babà, così lo chiamano ora, talmente inzuppato di liquore che gli ho dato fuoco. Perde di leggerezza e di memoria”
Quella cupola di Santa Sofia, fu poi stravolta dal cuoco personale di Stanislao, quando, a Parigi, avendo seguito la figlia del Re a corte di Francia, questi crea i babà a forma di cappello di cuoco. Lo stesso cuoco aprì un vero e proprio laboratorio che si mantenne nel tempo, tanto che ancora oggi si trova a Parigi a rue Montorgueil.
Era proprio rhum che la mia camicia emanava, una volta a teatro, seduta in poltrona, con l’occhio al palcoscenico e col sapore di rhum che non mi lasciava in pace come “dolce” richiamo di quello che avevo mangiato. Il Babà era in mezzo a noi come un intruso tanto da indurci a un bis all’uscita.
Come arriva il babà a Napoli?
Accade quando la corte d’Asburgo si imparenta con Ferdinando IV di Borbone concedendogli la mano di Maria Carolina che aveva tendenze francesi per la moda e il cibo ed era solita portare a Napoli sempre il meglio di quello che accadeva a Parigi. La cucina francese arriva a Napoli e così il babà. I Napoletani lo rivisitano in modo dettagliato tanto da farlo rinascere nel 1836 come ricetta napoletana grazie al cuoco Angeletti che scrisse un manuale dedicato a Maria Luigia di Parma. I Napoletani sono pignoli, controllano il rhum, lo sciroppo, la crema, il colore, la lievitazione. Nelle loro mani il babà diventa un’arte. Si discute per qualche grammo di liquore, per la gelatina, per il peso della frutta sulla forma a ciambella. Diventano tutti attenti alla pasticceria, fino a quando riescono a far dimenticare le fasi e l’artefice precedente di questo dolce e dargli una nuova dimensione. Ma evidentemente è piaciuto così tanto il babà ai napoletani che è come se lo avessero inventato loro dimenticando Stanislao e la cucina francese. Da baba senza l’accento di pane polacco, passa a babà per dirla alla francese e finire a babbà in napoletano dove esprime la squisitezza del liquore che sposa un buon panettone lievitato. Napoli e il babà sono una sola cosa e come si fa a Napoli in nessun altro luogo.
Quando uscivamo dal teatro ci si dibatteva sempre se andare a fare la pizza o continuare col babà, a volte il babà vinceva sulla pizza e una volta a casa quell’odore impregnava ancora i vestiti che avevano bisogno di stare all’aria per poterli riporre. E già facevamo i conti col successivo spettacolo a cui saremmo andati solo dopo aver mangiato il Babbà!
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