di Antonino Siniscalchi
Vico Equense - Quasi quasi mi dispiace che questo nuovo romanzo, “Dance The Love - Una stella a Vico Equense”, concluda “La Trilogia Sorrentina” di Raffaele Lauro, per me “il prof” e basta. Per cui questa straordinaria celebrazione culturale della nostra costiera, esordita con “Sorrento The Romance” e proseguita con “Caruso The Song - Lucio Dalla e Sorrento”, che ho visto nascere, sembrerebbe doversi concludere. The end! Ho letto e presentato in pubblico i precedenti romanzi, ma quest’ultimo, più degli altri, mi ha coinvolto, dentro, perché si parla solo di amore, amore per l’arte, amore per una persona, Fernando Savarese, amore per il proprio paese, amore per la natura e amore per la bellezza.
Sarà anche l’età, forse sto invecchiando (spero solo all’anagrafe), ma mi sono persino commosso. Trovo la scena finale di questo romanzo, il “sogno” di Violetta Elvin di ritornare a ballare sul palcoscenico del Bol’šoj, a novantadue anni, meravigliosa, pazzesca e visionaria. Pur tuttavia, da cronista, con l’orecchio teso, e da santagatese, un po’ informato, ho percepito che qualcosa di nuovo bolle nella “pentola” del prof: le lunghe interviste a Livia e Alfonso Iaccarino, le ricerche sullo sviluppo di Sant’Agata dall’Ottocento ad oggi, i sopralluoghi alla fonte di Canale, al Deserto, all’Albergo Iaccarino e ad Agerola e le consultazioni alla Biblioteca Nazionale di Napoli, nella sezione Lucchesi Palli, degli autografi di Salvatore Di Giacomo, fanno presagire novità. Ma torniamo a noi, su un tema, presente nel romanzo, non ancora trattato: la gastronomia della costiera sorrentina, di mio particolare interesse, avendo seguito, per anni, su Il Mattino, in una rubrica gastronomica nell’Agenda del Sole, supplemento del venerdì del giornale diretto, allora, da Pasquale Nonno, l’emergere di molti nostri chef stellati, diventati, oggi, star televisive e inseguiti per un ingaggio come gli allenatori di calcio.
Anche negli altri due romanzi della trilogia sorrentina la gastronomia della costiera occupa un posto privilegiato. Dalla cultura della cucina a quella della danza?
La cultura di un territorio non può essere confinata in un museo o in una biblioteca, che, pur essendo importanti, come custodi del passato, non esauriscono la dimensione spirituale di una comunità speciale, dal punto di vista antropologico, come la nostra. A maggior ragione, in una terra, che ha fatto dell’arte dell’accoglienza, da secoli, il suo specifico socio-economico, il nostro patrimonio identitario si arricchisce anche del rapporto con le colture agricole, con la trasformazione dei prodotti di allevamento e con il legame strettissimo con la qualità e la varietà del cibo, offerto agli ospiti di tutto il mondo. Immaginiamo, per un attimo, se, in Penisola Sorrentina, non fossero state introdotte, secoli addietro, le colture degli aranci, dei limoni e dei noci. Ne avrebbero sofferto anche le melodie musicali! Forse non sarebbero nate neppure “Torna a Surriento” o “Caruso”! Il provolone del Monaco non rappresenta un accidente della storia, ma il punto di arrivo, un’eccellenza del lavoro, che simboleggia i Monti Lattari, senza voler andare troppo indietro nel tempo, fino alla storia antica. La macchia mediterranea ha fornito e fornisce tutti i profumi delle bacche e delle erbe, che esaltano, con sapori naturali, unici e irripetibili, i piatti della tradizione contadina e quelli innovativi della dieta mediterranea, frutto dell’intelligenza, della creatività e della passione dei nostri grandi maestri di cucina: dagli “stellati” ai più giovani chef, che fioriscono, ogni estate, nei ristoranti e nelle cucine dei grandi alberghi.
Un mix tra la tradizione e l’innovazione, scuole di pensiero gastronomico, quelle dei nostri chef?
Le definirei autentiche filosofie, ancorché diversificate, saldamente ancorate, comunque, tutte, al rapporto con i prodotti genuini della terra e alla rivisitazione del passato, senza mai tradire i sapori e i profumi naturali. Sono solito paragonare i nostri chef, stellati o meno, agli artisti-artigiani delle botteghe rinascimentali della Firenze del Quattrocento e del Cinquecento. Non è un caso che io abbia chiamato, nel mio romanzo storico, il primo della trilogia, il cuoco di Casa Correale, Alfonso, in omaggio al nostro maestro-principe degli chef, Alfonso Iaccarino. Né è frutto di improvvisazione il riferimento costante, nel secondo romanzo, dedicato a Lucio Dalla, alla predilezione del grande artista bolognese per la cucina sorrentina e per i frutti della nostra terra e del nostro mare, una alimentazione semplice e non manipolata, con un must: pomodori cuore di bue, mozzarella e basilico.
Ho letto che anche Violetta Elvin non fu insensibile, fin dal 1951, proprio ai frutti della terra e del mare di Vico Equense.
Come tutte le danzatrici, anche donna Violetta mangiava e mangia poco, pochissimo, ma quel poco doveva e deve essere genuino. L’arte non consente manipolazioni. Ciò ha favorito, non dico determinato, lo sposalizio dell’artista con Vico Equense. Il romanzo inizia con la giornata di compleanno (novantaduesimo genetliaco) della protagonista e con la cena di festeggiamento, organizzata dai familiari all’Antica Osteria “Nonna Rosa”, sotto la regia del maestro Peppe Guida. Neppure questo dettaglio appare casuale, ancorché del tutto veritiero! Anche se il battesimo culinario di donna Violetta risale alla sua prima venuta a Vico Equense, nel 1951.
Mi ha molto divertito leggere delle “pagnottelle”, nei packet lunch che l’albergo Aequa, dove alloggiava, preparava a lei e agli altri amici inglesi per le escursioni su Monte Faito e su Monte Comune!
Per non sottrarre tempo all’escursione, mangiando, in collina, prima o dopo la salita in cima, non essendo presenti sulla sommità dei monti, in quel tempo, osterie, case ospitanti o punti di ristoro, Violetta Elvin e gli amici inglesi portavano con loro dei packet lunch, preparati in albergo, pieni di ogni ben di dio, con bottigliette d’acqua e piccole fiaschette impagliate, mai viste prima, ripiene di vino, bianco e rosso. Più che dei packet lunch, o bag lunch, quelle singole confezioni avrebbero potuto chiamarsi “maccaturi lunch”, in quanto racchiusi in grandi fazzolettoni (i maccaturi), a quadri, rossi e blu, con una tovaglia della stessa stoffa, da stendere sul prato e appoggiarvi sopra le cibarie. Tutto era confezionato a dovere, per non costringere gli escursionisti ad usare le posate. Una sorta di sandwich, più grandi, che i locali chiamavano “pagnottelle”, pane fresco croccante con diversi ripieni. Le tre pagnottelle, per ognuno, in un crescendo di sapori, rappresentavano, a metà giornata, una sorpresa entusiasmante per quei palati britannici, salutata con reiterati brindisi a base di vino, che contribuivano ad alimentare la comune allegria. I ripieni: fette di primizie di pomodori cuore di bue, intervallate con mozzarella e foglie di basilico, un filo d’olio, un pizzico di sale e una spruzzatina di origano; cotolette alla milanese, chiuse da foglie grandi di insalata cappuccina, coltivata nell’orto dell’albergo, e parmigiana di melanzane, con mozzarella, basilico e sugo di pomodoro. Quest’ultima pagnottella, la più succulenta, provocava addirittura applausi... a bocca aperta!.
Il momento clou, comunque, se ben ricordo, fu il pranzo a casa Savarese: insalata di polipetti freschi e pasta al forno? E’ così?
Ricordi bene. La madre di Fernando preparò per Violetta Elvin la sua (famosa) pasta al forno, una specialità di Ischia, da dove originava, con le melanzane fritte, la mozzarella, il sugo dei pomodorini di campagna e tanto, tanto basilico. Fernando, inoltre, aveva girato, all’alba, tutte le spiagge di Vico, aspettando il rientro dei pescatori per “sequestrare” tutti i polipetti pescati. Con quelli, la madre preparò anche un antipasto speciale di polpo verace, insalatina, olive, un filo d’olio e succo di limone, colto di fresco. Un misto di profumi del mare, degli orti e dei giardini di Vico Equense. Un profumo che non si trova in nessuna altra parte del mondo. L’apprezzamento fu riscontrato non solo dai bis, sia dell’antipasto che della pasta, ma, in particolare, dalle esclamazioni di Violetta. Excellent! Excellent!
Polipetti galeotti, quindi! Non dimentichiamo che donna Violetta cenava, d’estate, con il marito Fernando e i loro ospiti londinesi, al ristorante del resort di lusso di famiglia, “Le Axidie”, sulla spiaggia di Marina d’Aequa, dove si sono succeduti chef di grande valore.
Donna Violetta, per questa ragione, ben conosce la professionalità e la fama, ormai mediatica e internazionale, di tutti i grandi chef della penisola: oltre ad Alfonso Iaccarino del “Don Alfonso 1890” (due stelle), a Massa Lubrense, sono celebrati Alfonso Caputo de “La Taverna del Capitano” (una stella), Antonio Mellino del “Quattro Passi” (due stelle) e Roberto Allocca del “Relais Blu” (una stella). A Sorrento sono ricercati Giuseppe Aversa de “Il Buco” (una stella) e Luigi Tramontano della “Terrazza Bosquet” del Grand Hôtel Excelsior Vittoria (una stella). Naturalmente, non da ultima, Vico Equense: Domenico Iavarone del “Maxi di Capo La Gala” (una stella), Gennaro Esposito de “La Torre del Saracino” (due stelle), Marco Del Sorbo de “L’Accanto dell’Hôtel Angiolieri” (una stella) e, appunto, Giuseppe Guida della “Antica Osteria Nonna Rosa” (una stella). Seppure non operante a Vico Equense, ma legato alla terra vicana, dove è nato, un altro chef è assurto agli onori delle cronache gastronomiche, nazionali e internazionali: Antonino Cannavacciuolo. E non posso non ricordare molti giovani chef, tra i quali primeggia Andrea Napolitano del ristorante gourmet “Il Marzialino” di Palazzo Marziale. E mi scuso se ho omesso, involontariamente, qualcuno.
Possiamo concludere che questa grande artista ha scelto Vico Equense non solo per amore di Fernando Savarese e per le bellezze naturalistiche del luogo, ma anche per la nostra gastronomia?
Non lo posso escludere, con la precisazione che la nostra realtà, Vico Equense, Sorrento, Massa Lubrense e la costiera sorrentino-amalfitana, rappresenta un unicum, le cui componenti non sono scindibili. Per questo io parlo di patrimonio identitario. Un DNA non ripetibile. Donna Violetta si innamorò di una persona, per la quale abbandonò la carriera e il successo, ma anche di questo unicum, di cui fa parte certamente anche il cibo genuino.
La trilogia, con questo romanzo, può dirsi conclusa? Oppure ci sarà un sequel?
“La Trilogia Sorrentina”, come l’avevo intuita e progettata, non avrà alcun seguito. Sarebbe una contraddizione: tesi, antitesi e sintesi. Stop.
Eppure si parla a Sant’Agata sui Due Golfi di un omaggio letterario al mio borgo natio? Sono solo chiacchiere in libertà?
Come te, amo Sant’Agata sui Due Golfi, perché i miei genitori vi hanno trascorso alcuni anni meravigliosi della loro vecchiaia, sono confratello onorario della Confraternita del Santissimo Rosario, sono amico del cuore ed estimatore di Livia e di Alfonso Iaccarino e, non da ultimo, sono un appassionato delle mele limoncelle, purtroppo, per me, ormai introvabili.
E allora?
Assolverò certamente al mio debito di gratitudine!
Il prof non vuole mai rinunziare ai suoi colpi a sorpresa!
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