Raimondo Pasquino e Giuseppe Guida |
Com'è noto, nei marosi del partito nazionale, il Pd napoletano sta navigando in una zattera messa, se possibile, ancora più in cattive condizioni. Pur se in un contesto quantomeno disordinato e privo di una vera progettualità, la fine indecorosa del Pd in città non è solo la fine di un partito e di una classe politica "ciuccia e presuntuosa" come pure è stato scritto. È certamente la disfatta, di alcuni singoli personaggi che, ancor privi di un reale consenso in città, sono riusciti, con piccoli trucchi come una legge elettorale incostituzionale o solide cordate locali, a tenersi in piedi e a sopravvivere dando una parvenza di vitalità. Ma nella fine del Pd è stata fagocitata anche (forse soprattutto) una sostanziosa parte della classe dirigente cittadina, quella che potrebbe essere identificata in una sorta di élite. Un'ampia fascia di professionisti, intellettuali, pseudo-intellettuali, filosofi, attori, dirigenti, politici che, a partire dai tempi del primo Bassolino, hanno accumulato fortune, in visibilità, quattrini, prebende, incarichi politici, e che ora sono assenti, come se il fatto non fosse loro. Spiace che questa crisi generalizzata, con molti padri e molte colpe, si sia purtroppo addensata e abbia preso le forme di alcuni, pochi, capri espiatori, perché in troppi avranno modo di tirarsi fuori, ricominciando daccapo e abbandonando ogni responsabilità.
Si tratta, è utile ricordarlo, di responsabilità enormi, che hanno persino creato lentamente i propri avversari, che si sono sostituiti al Comune e che hanno fatto riporre nel dimenticatoio elettorale le cose concrete pur realizzate in un paio di decenni. Ma nonostante un generale vento contrario, l'implosione di quello che era tra i maggiori partiti in città non ha solo cause esogene. Si tratta invece di un processo di autodeterminazione al contrario, di assenza totale di un dibattito e persino di una vera resa dei conti, di autocombustione, insomma. Di piacevole autocombustione, quasi. Vista dal di fuori delle maglie di questo partito che appare sempre più antipatico, questa crisi purtroppo non è solo una crisi che colpisce un gruppo di individui inadeguato. Quella che è la crisi nazionale del Pd, in sostanza, a Napoli è diventata una pièce teatrale dove gli attori si sono trasformati in simbolo irreversibile di una cosa che non funziona, dalla cui deriva si salvano solo quei pochi che hanno un effettivo pacchetto di voti. E così la fine del Pd ha anche colpe che vanno oltre la crisi di un partito politico di cartapesta, privo di identità e sempre più satollo di personaggi spesso raccogliticci e, in qualche caso, persino poco raccomandabili. Sono colpe di tipo civico, nelle quali l'assenza di etica della responsabilità ha sottratto, quasi d'improvviso, alla città un'offerta politica coerente, progressista ed in grado di parlare quantomeno alle ultime due generazioni, quelle con le quali il Pd ora sta facendo i conti in negativo, in termini di voti e, più in generale, di consenso e di partecipazione civica. E con le nuove generazioni la crisi colpisce valori e temi di governo, priorità amministrative, progettualità e pianificazione del futuro: tutta roba trattata in maniera insufficiente e lontana da una città, la cui parte migliore tenta di andare via, ma chi rimane pretende risposte conclusive e non genericità, in contrasto con visioni concrete di futuro, oltre che con il buonsenso. Abituata a nuove forme di rappresentanza e al coinvolgimento di nuovi soggetti (più o meno arancioni) che sono riusciti con un po' di tempo, come ha scritto Ottavio Ragone su questo giornale, ad avere il riconoscimento politico che hanno cercato, Napoli si è accorta di poter far a meno del Pd, dei suoi inciuci e anche di quello che di buono era rimasto, riducendolo a soggetto irrilevante. Un ampio e pericoloso buco, un terrain vague, si è aperto in un'area politica ricca di eredità e di valori. Sarebbe il caso di richiuderlo e di rimettersi a lavorare e a pensare.
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