di Filomena Baratto
Vico Equense - Il lavoro è l’occupazione che ci permette di sostenerci, dandoci dignità di uomini e di cittadini. E’ un diritto e un dovere riportato dalla nostra Costituzione che lo contempla al primo punto, dove afferma “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Oggi, lontani da quel primo gennaio 1948, anno in cui andò in vigore la Costituzione, è una fortuna per chi ce l’ha e un serio problema per chi è a spasso, e stona un po’ parlare di festa in un periodo in cui c’è crisi di lavoro e di valori. La festa è piuttosto uno strascico storico che risale al 5 settembre del 1882 a New York, organizzata dai Cavalieri del lavoro e successivamente spostata a maggio. Il primo orario moderno, di otto ore al giorno, risale al 1866, quando fu approvato nell’Illinois, in seguito ai ritmi stressanti cui erano sottoposti i lavoratori. In Italia è giorno di festa dal 1 maggio 1891, interrotta solo dal periodo fascista, per poi riprendere nel 1945. Il lavoro serve per vivere, là dove invece si finiva a vivere per lavorare. Il paradosso di oggi è che ci sono stakanovisti che lavorano sette giorni su sette per non riuscire a staccarsi completamente, a fronte di chi il lavoro non lo vede nemmeno da lontano. La fascia a rischio è quella avanti con gli anni, che difficilmente trova un lavoro adatto, per l’età che avanza e per essere sempre più demotivata. Così i giovani, pur avendo forze, mancano di esperienza e si adattano, nella speranza di sganciarsi dai genitori.
A volte, per questa frenesia, non completano gli studi, credendo che guadagnando, siano avvantaggiati, per poi scoprire lo studio magari più in là, quando non c’è tempo per completare.
I giovani hanno anche difficoltà a capire cosa vogliono fare “da grandi”, un aspetto non marginale, che diventa prioritario quando passa il tempo e non decidono. Spesso non sono sostenuti, né indirizzati, delegando a tempi più maturi una scelta consapevole. Il lavoro deve lasciare anche del tempo libero, una giornata ricca di vita oltre al lavoro, per riacquistare le forze invece di alienarci. Molti hanno colmato il loro tempo libero col lavoro e non distinguono più cosa sia un tempo vuoto. E’ quel tempo entro cui pensare, riflettere, riposare, caricarsi, distrarsi, staccarsi dall’abitudinario. Oggi sono cambiati anche i tipi di lavoro. Al ciabattino, alla sarta, alla lattaia, all’arrotino, la ricamatrice si sono sostituiti il designer, l’ arredatrice, il consulente, l’assistente sociale, l’accudiente, la curatrice di cose varie, il sommelier, insomma lavori anche strani, mai esistiti prima. Il trainer, il mister, il portaborse… Alle lavori nuovi rispetto a una volta si affiancano anche quelli vergognosi dei bambini che lavorano per le multinazionali a bassi costi di produzione, o come lo sfruttamento del lavoro in casa, ma anche il lavoro nero, lavori a volte rischiosi, impossibili. L’assistenzialismo statale è stato rivisto e così il dipendente deve attenersi a formule e situazioni diverse caso per caso. Ma vi è grande differenza anche tra pubblico e privato e, mentre lo stato mantiene uno standard per i suoi dipendenti, il privato agisce come meglio crede. Nel curriculum per l’assunzione valgono i titoli, le competenze ma anche la vita privata. Si chiede la costituzione fisica, l’integrità mentale, se donna, i figli e se in età fertile si cerca di indirizzare anche la sua eventuale voglia di procreare. Le donne come sempre sono più penalizzate, devono dimostrare di essere molto più brave rispetto ai colleghi e hanno anche una vita lavorativa con minori aspettative, se togliamo gravidanze, parti e allattamenti. Questo fa sì che non vi siano mai buone condizioni valide per tutti indiscriminatamente. Oggi c’è un diffuso malcontento, le aspettative di vita sono migliorate e il lavoro è diventato non più a vita. E’ cambiato perché non assicura più una pensione adeguata, perché demotiva, per non esserci un congruo rapporto tra ciò che si fa e quello che si percepisce, per esserci lavori sottopagati e altri d’elite supervalutati. Un calciatore guadagna quanto un professionista in tutta la sua vita, un ministro ha privilegi da nababbo… Questi poco edificanti esempi non fanno altro che demotivare e rendere i lavoratori eterni scontenti. E anche se non bisogna appiattire e livellare il tutto, questi esempi lasciano intendere ingiustizie e perdita di fiducia. Il lavoro deve piacere e permettere di trascorrere le giornate con interesse invece che con noia e non sopravvivere per la fine del mese. Ma questo è un lusso! Molti lavorano in condizioni precarie e per cose che non amano e che non ameranno mai. Le demotivazioni sul lavoro nascono soprattutto quando esso rappresenta solo un dovere. Sin da piccoli i bambini portano nel gioco le loro predisposizioni, di cui i genitori dovrebbero tener conto per poterli meglio indirizzare verso quelle attività che si avvicinano alla loro indole. E non saremo tutti professionisti ad ogni costo, molti sceglieranno dei mestieri, ma quel che conta è la passione. Tutti dovrebbero avere un lavoro ad personam, nel rispetto della propria natura, per lo stile di vita e le aspettative. Ma così non è. Un amante delle lettere si troverà collocato in una fabbrica di auto, un pittore starà in marina, un medico, che amava architettura avrà accontentato il padre, un avvocato aveva lo studio avviato ma amava la band con gli amici e voleva cantare. E così va la vita. Chi svolge il lavoro che ama è fortunato. Crediamo che il lavoro che renda di più economicamente, sia il più valido, invece può risultare il più invalidante. E lo Stato? E predisposto a conoscere la felicità dei suoi cittadini? E’ programmato per avere la conoscenza di questi parametri? Ci sono scuole preposte a questo? Da noi il lavoro è visto in questa ottica? Per certi versi siamo un paese moderno per ritmi e costi di vita, per altri siamo refrattari a quello che tendenzialmente è nuovo. Come popolo siamo fantasiosi, amiamo lavorare in modo creativo, siamo gente ingegnosa, ma a volte anche lamentosa, accidiosa e amiamo essere assistiti. Nella realtà oggi ci sia adatta a tutto pur di portare a casa lo stipendio, nella speranza che, strada facendo, le cose cambino, ma non sempre nella direzione da noi sperata. E allora si finisce per adeguarsi, per mancanza di forze a reagire, per non lasciare quello che di sicuro abbiamo per l’incerto, per gli anni che passano e che ci assottigliano il futuro. Il lavoro è il testimone dello scorrere della nostra vita e credo che in esso vadano ricercate le cause che a volte portano a disagi e disorientamenti che si riflettono su altre sfere.
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