di Salvatore Ravenna
Massa Lubrense - Da avvocato marittimista sono più abituato a parlare in pubblico di norme giuridiche e di diritto della navigazione, che di letteratura e di narrativa. Ho accettato, tuttavia, per la seconda volta e per le stesse ragioni di stima, di amicizia e di personale considerazione, di presentare, in anteprima nazionale, il 10 luglio, a Sant’Agata sui Due Golfi, il nuovo romanzo del prof e mio padrino di cresima, Raffaele Lauro, “Don Alfonso 1890 - Salvatore Di Giacomo e Sant’Agata sui Due Golfi”, che celebra, in maniera esaltante e coinvolgente, un personaggio mitico del mio paese nativo, don Alfonso Costanzo Iaccarino, il grande poeta napoletano, Salvatore Di Giacomo, innamorato della mia terra e, non da ultimo, un’eccellenza italiana nel mondo, lo chef pluristellato, don Alfonso Iaccarino, legato al mio compianto padre Franco, per la comune e condivisa passione venatoria. Posso dire, senza tema di sbagliare, che don Alfonso sia stato un allievo (non in cucina!) di mio padre e, talvolta, sebbene non fossero coetanei, giovane compagno di battute di caccia e appassionato, come lui, di cani da caccia. I loro fedelissimi amici. Non scopro niente di nuovo, inoltre, se confesso la grande ammirazione che, insieme con mia moglie Paola e con la famiglia di mio fratello Lello, il quale ha continuato, a Sant’Agata, l’attività commerciale di mio padre, il negozio di armiere, nutro sia per il prof (e i genitori che vissero per un periodo a Sant’Agata, nostri vicini di casa, molto legati a mia madre!) che per la famiglia Iaccarino, per don Alfonso e Livia, nonché per i figli Ernesto e Mario.
Ho divorato, quindi, le bozze di questo libro e, da santagatese, nato, cresciuto e residente, con la mia famiglia, in questo meraviglioso borgo, mi sono appassionato (ed emozionato!) particolarmente alla lettura delle pagine che trattano della storia di Massa Lubrense e di Sant’Agata, della vita, delle abitudini, dei riti, anche religiosi, della nostra comunità, nonché l’evoluzione socio-economica, tra agricoltura e pesca, subita dalla stessa, dopo l’impatto con il turismo, prima di soggiorno e, poi, di massa. Né potevano lasciarmi insensibile le descrizioni, attraverso gli occhi di Di Giacomo, degli angoli più belli e suggestivi di Sant’Agata, battuti, da ragazzo, palmo a palmo, con i miei compagni di infanzia: il Deserto, la Fonte di Canale e Santa Maria della Neve. Pur avendo smesso di andare a caccia da molti anni, a differenza di don Alfonso e di mio fratello, e in questo rappresento un caso atipico, ho chiesto al prof di approfondire, in una conversazione giocosa, questa tradizione popolare, ben documentata nel libro: la passione collettiva, trasmessa di generazione in generazione, dei santagatesi e delle santagatesi (a Sant’Agata anche le donne, un tempo, cacciavano!), per la caccia, specie degli uccelli migratori, le quaglie.
So che tu non sei stato e non sei cacciatore, prof! Mi spieghi, allora, come sei riuscito, nel tuo bel libro, a ricostruire questa passione santagatese, i cui alcuni dettagli erano anche a me sconosciuti?
Me ne ha parlato a lungo, e appassionatamente, don Alfonso, che pratica la stessa passione di suo nonno e di tuo padre. Ho rintracciato, poi, in tutti i libri e documenti su Sant’Agata, questo costume popolare, non solo ludico, ma anche di necessità. Mi sono documentato, principalmente, con tuo fratello Lello, il quale mi ha fatto scoprire anche i versi, sulla caccia, del poeta vernacolare massese, Francesco Saverio Mollo. Nelle sue composizioni ho trovato una miniera di informazioni e di spunti narrativi, come, ad esempio, l’esistenza di donne santagatesi cacciatrici, come Nannina, detta ‘a Cacciatora, la quale, con la cartucciera in vita e con il fucile a tracolla, ogni mattina saliva sul “Monteaccòvero” a cacciare.
Ogni santagatese maschio, comunque, al di là delle donne, possedeva almeno un fucile da caccia. Questa prassi resiste ancora?
Ogni santagatese, bambino o ragazzo che fosse, imparava, prima di apprendere a leggere o a scrivere, come costruire e utilizzare le trappole per fare prigioniere le quaglie, quei piccoli galliformi, molto ricercati nella cucina locale delle famiglie. Allo stesso modo, le ragazze e le donne, cacciavano le quaglie con il “coppo”. Insomma, la caccia a questi uccelli di passo investiva tutti i segmenti sociali e si integrava con le altre attività lavorative, regolate dalle stagioni e dalla meteorologia. Almeno fino a qualche anno addietro. Non credo che oggi la caccia, pur resistendo, sia diffusa in maniera capillare, come in passato.
La caccia, escludendo le origini dell’umanità, quando si cacciava per sopravvivere, non è stata storicamente un fenomeno popolare, ma di élite. I nobili andavano a caccia, sui loro terreni e nelle loro tenute, come esercizio ludico, come status sociale.
In effetti, a Sant’Agata, coesisteva sia la caccia dei “signori”, soggiornanti estivi nel borgo, anche nobili, sorrentini o napoletani, molto abbienti, come espressione di classe, sia la caccia della gente comune, che diventava un mezzo integrativo, non secondario, di risorse alimentari necessarie alla famiglia. Di proteine e di sali. Il poeta Mollo verseggia: “L’ommo accide l’animale pe’ magna’”! L’uomo uccide l’animale per cibarsi. Oppure per procurarsi un reddito aggiuntivo.
Ti riferisci alla cacciagione che veniva venduta a Napoli o barattata con le cartucce?
Certo. Fin dall’Ottocento, alcuni santagatesi trasportatori, oltre a vendere, a Napoli, pesci, frutta, latticini e carni di vitella, rifornivano anche alcuni negozi di Napoli, nei periodi di passo, di quaglie catturate nel corso della notte precedente, ricercatissime anche nella cucina napoletana. Di questa centralità “alimentare” delle quaglie, ne erano testimonianza le ricette culinarie delle donne santagatesi, trasmesse da madre in figlia, come la passione per la caccia veniva trasmessa di padre in figlio.
Le quaglie, dunque, stremate dai lunghissimi voli, con punte di velocità fino a novanta chilometri all’ora, trovavano a Sant’Agata un esercito schierato di uomini, donne e ragazzi, pronti a catturarle?
Tentavano di celarsi nella bassa vegetazione, ma, specie le femmine, in attesa del maschio, mentre pigolavano, cadevano vittime di reti, di lacci, di falsi richiami, di coppi e, naturalmente, di colpi di fucile. Destinate alla vendita a Napoli o alla cucina domestica.
Io ricordo bene questa tradizione familiare di cucinare le quaglie o altra cacciagione!
Le quaglie, a differenza di altri volatili, non dovevano “frollare”, quindi, ben pulite, finivano subito nei tegami, nelle “tortiere” o nelle padelle, a uccello intero, per essere rosolate, brasare, arrostite o stufate. In forno, allo spiedo o ai ferri. Oppure ripiene di erbe aromatiche, lardellate, al cartoccio. Pronte a rendere più nutritive le cene delle famiglie santagatesi, accompagnate da verdure, patate o cereali.
La caccia dei santagatesi, comunque, non si limitava soltanto alle saporose quaglie, in abbondanza nei periodi di migrazione.
Nel corso dell’anno, si cacciavano, nelle pinete, nei boschi di castagni, negli uliveti e persino negli anfratti marini, prede più consistenti: beccafichi, tordi, beccacce e tortore, che finivano tutte in consumo familiare, arrosto, al ragù, in tortiera, maritate con la carne di maiale o il lardo. Ho riscontrato decine di ricette casalinghe, con le prede cacciate, grigliate tra le cipolle o tra foglie profumare di erbe aromatiche. Particolare pregio avevano, in mancanza di quaglie, le tortore, il cui brodo serviva alle puerpere per svezzare i bambini. Più pregiato ancora era il tordo, il cui brodino era più leggero e più nutritivo. Quindi più adatto ai bambini da svezzare. Anche qui soccorre il poeta Mollo: “‘o brurillo fa bene a lu nennillo!”. Il brodino fa bene al bambino!
Chissà se io sono stato svezzato con il brodino di tortora o di tordo!
Mi sa, avvocato, con entrambi!
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