di Filomena Baratto
Vico Equense - Capita spesso, scrivendo messaggi sul telefonino, di mancare un apostrofo, di non trovare la lettera giusta o accentata, di non mettere una maiuscola finendo, complice anche il metodo di scrittura adottato, per diventare approssimativi. Queste piccole disattenzioni diventano sempre più frequenti facendoci perseverare nell’abitudine di sbagliare e nel fatto che tanto si capisce quello che vogliamo dire e che è stata la fretta e non altro. L’approssimazione vige nei nostri scritti e non solo telefonici, tanto che si siamo assuefatti a vederli un po’ dappertutto. Ma quante possibilità diamo alla distrazione? Non è che dobbiamo storcere il naso a un accento mancato, ma nemmeno cominciare a scrivere in una lingua che non è più la nostra. Nell’ultimo messaggio a un’amica, amante della lettera e della bella scrittura, le ho chiesto di scusarmi per i mancati accenti, per non trovarli più, in un “post scriptum” come vuole la regola. E se dall’altro lato c’è stata indulgenza dovuta anche al fatto di conoscermi, non ha disdegnato la formalità con cui le ho scritto. La lettera ha perso anche il valore di una volta, ma sta diventando una riscoperta per molti. Con essa si riflette prima di scrivere, si sa che è un pezzo che resta ma soprattutto per il famoso detto latino che “verba volant scripta manent”. Lo scritto resta, è una prova, un riconoscersi. Difatti ho un’altra amica che mi riconosce dallo stile quando le mando piccoli messaggi.
E poi un bello scritto lo si legge volentieri, si capisce al volo, non fa perdere tempo di comprensione. Se voglio scrivere secondo norma devo impiegare più tempo, oltre ad avere una vista di lince e una manualità. Per questo e altro risultiamo troppo essenziali con frasi minime e con la speranza di essere poi interpretati bene. Ma questo è niente rispetto a quello che si vede in giro. Vedo delle brutture di simboli matematici al posto di preposizioni, lettere tutte minuscole in una grande omologazione tra “importanza e normalità”, accenti a iosa anche quando non ci vogliono. Ma a questi strafalcioni si aggiungono vere e proprie deficienze, di una lingua poco studiata e conosciuta. E non si possono accettare accenti al posto dell’apocope, o accenti là dove non ci vogliono scambiando troncamenti per elisioni, pronomi maschili al posto di quelli femminili, costrutti che per azzeccarli ci vuole un terno al lotto e ti trovi un ce n’è scritto “c’è ne” o una congiunzione al posto del verbo o una preposizione al posto del verbo. E che dire dei monosillabi che non si accentano e invece trovarci su l’accento grande quanto un fiocco. Per non parlare dei verbi, una vera e propria congiura. Una volta la grammatica la si imparava, oggi la gioventù ha altro da fare anche grazie ai modelli cui si rifà che insegnano come a studiare si perda tempo, mentre puntando al denaro ci si può comprare poi tutto. Senza metodo non c’è studio. Nella nostra lingua le eccezioni sono di gran lunga più delle regole. E ci troviamo davanti un “pero” al posto del “però” per non parlare del fatidico “qual è” scritto sempre con l’apostrofo o purtroppo scritto “pultroppo”, a volte storpiato in “avvolte”, ma si trova anche un’amico al posto di “un amico” senza apostrofo visto che è maschile. E ancora la “d” eufonica di solito messa a casaccio senza regola e quando ci vuole la si omette. “Ad ogni” e “ad esempio” sono d’obbligo visto che sono eccezioni. Insomma capitano cose veramente assurde. La nostra bella lingua è continuamente ferita e, se non è per la fretta, viene colpita dall’ignoranza. La grammatica va studiata, non inventata. E’ propedeutica alla scrittura e le regole sono fondamentali per non incorrere in una Babele. Siamo i primi a non volerle bene e a bistrattarla credendo che basti essere italiano per conoscerla, poi ci lamentiamo quando gli altri non l’hanno in considerazione. La lingua è uno strumento, un patrimonio e va preservato, anche se si incorre in continue questioni sin dall’antichità, che portano a chiedersi se essa debba aggiornarsi continuamente o rifarsi a regole fisse, se debba accettare parole straniere o rifarsi esclusivamente a vocaboli puri. La lingua deve tener conto delle mode, dei nuovi termini, per mantenersi viva, che non significa abolire la sua storia, la sua origine, e i suoi processi nel tempo. E solo quando si conosce bene la propria, si può intraprendere lo studio di un’altra lingua. Mantenere ordine nella lingua, è mantenere ordine nelle idee. “Un popolo comincia a corrompersi quando si corrompe la sua grammatica”, come afferma Octavio Paz.
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