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lunedì 22 gennaio 2018
In arrivo il Parlamento più «rosa» della storia
La quota di donne verso il 45%: sfida al record della Svezia
Fonte: Marco Esposito da Il Mattino
Le liste devono ancora esser ultimate ma una previsione è già possibile: il prossimo Parlamento sarà il più rosa di sempre, stracciando il livello attuale del 30 per cento per attestarsi intorno al 45 per cento. Un record per la storia repubblicana e un record probabile anche per l'Europa, visto che il Parlamento con più donne di tutti è quello svedese con il 44 per cento seguito da quelli spagnolo (43 per cento) e finlandese (42 per cento). Con Francia (38 per cento, in rialzo con Emmanuel Macron) e Germania (31 per cento, in calo con l'ultima vittoria di Angela Merkel) piuttosto dietro. Due sono le regole del sistema elettorale che consentono un'ampia presenza femminile sia alla Camera, sia al Senato. La prima è la quota di genere, che indica un minimo di rappresentanza per gli uomini come per le donne del 40 per cento sia nei collegi uninominali (dove vince chi prende un voto in più) sia nelle posizioni di capolista dei listini bloccati (dove si è eletti se il partito supera lo sbarramento del 3 per cento nazionale).
La seconda regola del sistema elettorale che premia la presenza femminile è l'alternanza di genere nei listini, con la possibilità di candidare la medesima persona in più posti, fino a un massimo di sei. Tale opzione in apparenza è neutra rispetto al genere; ma visto che in Italia nei maggiori partiti prevalgono ancora i leader di sesso maschile, saranno soprattutto loro ad essere candidati in più posti e quindi, paradossalmente, saranno più le donne a beneficiarne. Il perché merita una spiegazione, con un esempio concreto. Supponiamo che Matteo Salvini, capo della Lega, voglia utilizzare al massimo la propria presenza sulla scheda per trascinare il suo partito. La legge gli consente di candidarsi in un solo collegio uninominale e in cinque collegi plurinominali, cioè nei listini bloccati. Opzione che un leader, proprio perché tale, utilizza assegnandosi la posizione di capolista del listino. Se Salvini fosse eletto in tutti e sei i collegi, non potrebbe scegliere la posizione che gli conviene di più, come avveniva nella legge elettorale precedente, ma dovrebbe obbligatoriamente essere eletto nell'unico collegio uninominale consentito oppure - se proprio in quel collegio fosse stato bocciato nel collegio plurinominale dove la sua lista ha fatto il risultato peggiore. Quindi ci saranno dei collegi plurinominali dove Salvini, pur eletto, deve necessariamente cedere il posto al secondo del listino bloccato. E visto che la legge impone l'alternanza di genere, dietro ogni Matteo ci sarà per forza una donna, per cui l'elezione di Salvini porterà fino a cinque donne leghiste in Parlamento. Discorso analogo si può fare per il leader del Pd, Matteo Renzi, che si candida e sarà molto probabilmente eletto nel collegio senatoriale di Firenze ma che si candiderà anche in alcuni collegi plurinominali in giro per l'Italia (di cui uno certamente in Campania) per cui essere numero due nel listino bloccato dietro Renzi significa avere un posto certo a Palazzo Madama. E soltanto le donne potranno aspirare a tale investitura. Il meccanismo del leader uomo che trascina un «harem» di donne non sarà consentito a Silvio Berlusconi il quale, pur presente con il suo nome sul simbolo di Forza Italia, non è candidabile. E non sarà consentito, per regole interne di movimento, al leader dei Cinquestelle Luigi Di Maio, il quale potrà candidarsi soltanto in un collegio uninominale e un collegio plurinominale, così come accadrà per gli altri volti noti del movimento fondato da Beppe Grillo a partire dal napoletano Roberto Fico. Si dirà che ci sono anche leader di partito donne, come Giorgia Meloni (Fratelli d'Italia), Beatrice Lorenzin (Civica popolare), Emma Bonino (Più Europa) e Viola Carotalo (Potere al Popolo, sebbene lei personalmente non si candiderà) per cui alla fine ci sarà una sorta di compensazione. Tuttavia il meccanismo del capo che trascina nei listini molti parlamentari funziona soltanto con i partiti che raccolgono sufficienti consensi (dal 14-15 per cento in su) mentre quando la percentuale è a una cifra è difficile prevedere dove scatterà il seggio del listino proporzionale. Inoltre alcuni partiti potrebbero incappare nella tagliola dello sbarramento al 3 per cento e pertanto non eleggere nessuno. Quindi Meloni, Lorenzin, Bonino, Carotalo e lo stesso Pietro Grasso (Liberi e Uguali) nonché la coppia di centrodestra Raffaele Fitto-Lorenzo Cesa (Noi con l'Italia) e quella di centrosinistra Angelo Bonelli-Riccardo Nencini (Insieme) hanno modeste probabilità di indovinare dove e in favore di chi scatteranno se scatteranno - i seggi dei listini. Fatto sta che - anche nell'ipotesi che i partiti assegnino alle candidate donne solo il minimo indispensabile di seggi nell'uninominale e nei posti di capilista nei listini, ovvero il 40 per cento - è molto probabile che la quota di elette sarà superiore, intorno al 45 per cento, senza escludere la possibilità di arrivare a toccare il 50 per cento. Per le donne, del resto, quella nelle istituzioni è stata una lunga marcia. Il diritto di voto in Italia, è noto, è arrivato nel 1946 e tra le elette nella Costituente ci furono Lina Merlin e Nilde Iotti. La Merlin, deputata socialista, ha il merito storico di aver contribuito a scrivere quello che forse è il più importante articolo della Costituzione, il numero 3. A lei si devono infatti le parole: «Tutti i cittadini (...) sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso». Il suo nome, inoltre, è legato alla legge simbolo contro la mercificazione della donna, con la chiusura delle «case chiuse» nel 1958, tema peraltro riproposto in chiave restauratrice nell'attuale campagna elettorale. Nel primo Parlamento repubblicano, quello eletto nel 1948, le donne erano una pattuglia combattiva anche se numericamente modesta; il 5 per cento. Sembra - va, pero, un primo passo verso quel 50 per cento che rappresenta la parità matematica. E invece negli anni successivi la quota femminile finì con l'arretrare. Per uno dei paradossi della storia, il minimo di presenza rosa in Parlamento - il 2,9 per cento tra Camera e Senato - si è toccato nelle elezioni del 19 maggio 1968, cioè nel pieno della contestazione, con la società scossa da temi che vedevano la questione femminile in primissimo piano. Un segno, forse, di una prima profonda spaccatura fra «Palazzo» e «popolo», anche se la metafora del «Palazzo» (oggi si direbbe «casta») è successiva, del 1975, e si deve a Pier Paolo Pasolini Le donne a lungo hanno rappresentato l'eccezione, come Nude lotti nel 1979 prima presidente donna della Camera e Irene Pivetti nel 1994 più giovane presidente a Montecitorio. Oppure la curiosità, come Ilona Staller, in arte Cicciolina, eletta alla Camera nel 1987 con ventimila preferenze, seconda nel Partito radicale soltanto a Marco Pannella. In quegli anni la presenza femminile era confinata al 10 per cento. Il balzo delle donne in Parlamento è un fenomeno recente e si deve, paradossalmente, alla legge elettorale peggiore di tutte perché incostituzionale: il Porcellum. Il quale aveva molti difetti ma è stato il primo sistema a introdurre meccanismi a tutela della parità di genere, sia pure in misura graduale come sottolineato a fine 2005 dalle lacrime di Stefania Prestigiacomo. Le cronache raccontano che durante il Consiglio dei ministri che doveva approvare la legge elettorale, la Prestigiacomo avesse chiesto con forza le quote rosa («Non è un mio capriccio, c'era un impegno preciso») ricevendo la risposta di Silvio Berlusconi: «Stefania, ti prego, non fare la bambina». Cassato il Porcellum e mai sperimentato l'Italicum, tocca ora al Rosatellum, che esordirà il 4 marzo 2018. E stavolta è una legge «rosa» già nel nome.
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