Lecce, umiliato e picchiato in classe. Un compagno manda il video ai genitori
Fonte: Giuseppe Montesano da Il Mattino
In una scuola della Puglia un ragazzo ha ripreso col telefonino frammenti di una scena di bullismo a cui era sottoposto un suo amico, e l'ha mandata alla mamma del ragazzo: di lì è partita la ricerca dei cosiddetti bulli, ai quali prima o poi bisognerebbe cambiare nome definendoli «sadici socialmente pericolosi». Ma nella vicenda pugliese c'è un elemento di riflessione particolare che sta nel fatto dell'invio del breve filmato, da parte di uno studente, alla famiglia del ragazzo vessato e umiliato. Quel gesto che potrebbe sembrare poco coraggioso, è forse invece il contrario, dal momento che il ragazzo vessato non riusciva a parlare con i genitori dell'accaduto: l'amico che ha mandato il video avrebbe così rotto in qualche modo il silenzio su cui si regge il cosiddetto bullismo. Il bullismo è una forma di violenza privata a danno di uno solo legata al sistema del branco, in cui uno o più capetti agiscono direttamente o per interposta persona: un sistema che a vedere bene è la riproduzione del sistema camorristico, perché il suo funzionamento è garantito non solo dall'acquiescenza forzata della vittima ma dal silenzio omertoso che la circonda. I protagonisti, vittime e carnefici, in una classe sono una minoranza, mentre gli altri sono spettatori che per vari motivi scelgono il silenzio, esattamente come accade nelle società ad alto tasso camorristico in cui aleggia la domanda retorica «Chi tè lo fa fare?», che vale allo stesso modo per una società civile e per una classe scolastica.
Infatti i cosiddetti bulli, in realtà sadici socialmente pericolosi, impongono il silenzio agli altri compagni minacciandoli di fare la stessa fine del vessato, oppure, anche senza dirlo esplicitamente, lasciano aleggiare sugli altri, la maggioranza della classe, la minaccia della violenza. Porse il perdurare e l'acuirsi del cosiddetto bullismo è legato anche al fatto che la scuola, e gli insegnanti compreso il dirigente, non hanno reali strumenti di azione; una legislazione vecchia e ambigua lascia immense possibilità di farla franca ai minorenni che compiono atti di violenza fisica o psicologica, compreso lo stalking. Esagerazioni? Si direbbe proprio di no, visto ciò che sta emergendo riguardo alla violenza esercitata dai socialmente pericolosi sugli insegnanti: visti da costoro come sostanzialmente privi di una reale possibilità di difesa. In tutto questo groviglio il gesto del ragazzo pugliese arriva come una piccola bomba, a far esplodere l'idea della connivenza: e del silenzio. Se è vero che il ragazzo era amico della vittima, o in ogni caso non sopportava più il fatto stesso che esistesse quella violenza, un suo gesto è andato direttamente alla radice della questione scavalcando anche la possibile opposizione della vittima e l'incredulità possibile degli adulti. Che qualcuno abbia parlato o fatto parlare un filmato come un documento, e che quel qualcuno non fosse la vittima, è una piccola rivoluzione nel sistema omertoso dentro cui prosperano i piccoli criminali, ma lascia ancora aperta la questione. La questione è che il ragazzo ha avuto sfiducia nel parlare, probabilmente stanco di ascoltare dai media lamenti sul bullismo intrecciati a buonismi d'accatto, e ha deciso di scavalcare il dialogo: il che va a suo merito pratico, ma mostra quanto sia debole la cultura del dialogo. E bisognerebbe chiedersi per esempio perché una vittima non denuncia ciò a cui è sottoposta, e poi perché non lo fanno quelli che hanno assistito o sanno. Forse perché sanno che la loro denuncia sarà minimizzata come accade spesso nei casi di stalking per gli adulti? O forse perché la cultura che appare nei discorsi privati e pubblici dice che è ingiusto usare la violenza psicologica o materiale per dominare qualcuno ma la cultura che agisce nella realtà dice che se sei picchiato e umiliato è perché sei debole e darwinisticamente è giusto che ciò accada? E se per caso fosse così: non sarà che l'idea darwinistica degli adulti, per cui la presunta verità della lotta per la vita viene ipocritamente mascherata con parole come competizione, si scarica poi sui ragazzi e sui bambini? I più giovani osservano molto più i comportamenti che i discorsi: se agiscono in un certo modo non sarà perché imitano la società degli adulti? Non sono domande retoriche queste, ma serie. E non ci sarà una risposta concreta finché l'ipocrisia adulta che trionfa in pubblico e in privato non sarà smascherata. Il ragazzo pugliese ha fatto molto per mostrare la realtà, ma toccherebbe ai grandi cambiare questa realtà.
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