Nella strage del Ponte Morandi non ci sono innocenti. Perché il fallimento è di tutti: politici, manager, imprenditori. E i nuovi governanti sono divisi sulle opere. La manutenzione della vecchia rete stradale non porta voti, la ricostruzione dei viadotti marci non regala applausi ai talk-show. Molto meglio lanciare ogni tanto un progetto faraonico
Fonte: Gianfranco Turano da L’Espresso
Nel crollo del viadotto Morandi a Genova ci sono vittime ma non H sono innocenti. Si fanno i funerali, si aprono inchieste, si avviano perizie e forse, fra anni, qualcosa capiremo. Intanto è uno in più, un disastro in più dopo i viadotti Scorciavacche e Himera in Sicilia, dopo il viadotto Annone a Lecco, dopo il viadotto di Possano in Piemonte, dopo il botto di Bologna che è sì provocato dall'esplosione di un'autocisterna ma basta a spaccare l'Italia, unita finalmente dal suo scheletro calcificato, fragilissimo ovunque. I tecnici sono attoniti. La risposta standard è: «Non è possibile». Non è possibile che il viadotto sia venuto giù così «come farina», come ha dichiarato alle telecamere della Rai una testimone oculare. «Non mi risulta che il ponte fosse pericoloso», ha dichiarato a botta calda l'amministratore delegato di Atlantia, Giovanni Castellucci. Eppure il viadotto sull'A 10 era noto a tutti gli addetti ai lavori come il tallone d'Achille nella rete gestita da Autostrade per l'Italia-Atlantia (2.964 chilometri).
Le debolezze dell'opera erano sotto controllo da tempo. I vecchi stralli in acciaio e cemento concepiti da Riccardo Morandi, autore del ponte sull'ansa del Tevere lungo la Roma-Fiumicino, del collegamento sulla laguna di Maracaibo e di molte altre opere, erano stati sostituiti da stralli più resistenti, solo m cemento. Erano in corso le opere di consolidamento della soletta. Dunque non è possibile, dicono gli uomini di Autostrade e i controllori dell'Anas che controllano sempre meno, sommersi dallo strapotere della concessionaria della famiglia Benetton e diluiti dall'ex ministro Graziano Delrio nella insensata fusione con le Ferrovie dello Stato, servita solo a garantire ricchi aumenti di stipendio al top management. Non è possibile ma è successo, nel paese che sogna ancora ponti sullo Stretto a governi alternati e che si trova di fronte al fallimento della manutenzione dell'esistente, stritolata dalla logica del massimo ribasso e del risparmio ossessivo sui costi finché il prezzo offerto dall'impresa non basta nemmeno a coprire le spese dell'intervento. Se i dati tecnici sono ancora in via di accertamento, il dato politico è trasparente fin dall'inizio di questa legislatura. L'Espresso aveva segnalato subito che il vero scoglio di questo governo, e dell'alleanza grillo-leghista, sarebbe stato l'indirizzo sulle infrastrutture. Come tutta risposta, Luigi Di Maio e Matteo Salvini hanno imposto una spartizione alla Cencelli sulla dicastero di Porta Pia. Hanno affidato la poltrona titolare a Danilo Toninelli, che aveva zero esperienza nel settore e che come primo provvedimento della sua gestione ha stanziato 5 milioni di euro per il ponte sul Po a Casalmaggiore, nella zona di casa sua. Giustissimo per carità. Intanto i suoi sottosegretari leghisti. Armando Siri, che ha giurato al Quirinale senza nemmeno interessarsi di sapere chi era il suo ministro, ed Edoardo Rixi, genovese, remavano nella direzione opposta, quelle delle nuove grandi opere senza se, senza ma e soprattutto senza quel calcolo costi-benefici che il M5S ha affidato a professori e professionisti. Ecco, se applichiamo il calcolo costi-benefici al viadotto Morandi, il conto è facile. Bisognava abbatterlo. È costato più in manutenzione che in realizzazione. Ma era impossibile. Si sarebbe tagliata in due la Liguria. C'era la Gronda di Genova in dirittura di arrivo, un investimento miliardario rinviato per anni che aveva reso il viadotto Morandi necessario al traffico cittadino, oltre che ai passaggi Ponente-Levante. C'era il Terzo Valico dell'alta velocità ferroviaria. Insomma c'erano i progetti indispensabili a liberare Genova dal soffocamento urbanistico nel quale si è abituata a vivere, fra traffico ed esondazioni di torrenti. L'unica cosa che mancava era l'indirizzo politico perché le infrastrutture, a differenza della presunta sostituzione etnica in arrivo dall'Africa, non danno notorietà se non quando se ne farebbe a meno, cioè in caso di disgrazia. Adesso il dilemma di fondo dell'alleanza di governo è davanti a tutti. Si può risolvere soltanto se una delle due parti cede. Ma è un dilemma puramente politico. Per chi va in strada, per i cittadini, pronti a indignarsi per il sacchetto di plastica del supermercato a pochi centesimi eppure assuefatti agli aumenti automatici dei pedaggi a ogni inizio di anno in cambio di investimenti lasciati alla bontà dei concessionari, la realtà è una. È nel fallimento delle politiche di tutti i governi, di tutti i ministri, di tutti i grand commis di Stato o manager privati almeno a partire dall'anno di grazia 2001, quando il premier Silvio Berlusconi disegnò alla lavagna m tv le meraviglie della Legge Obiettivo. Ha fallito lui, hanno fallito tutti. I crolli di oggi sono figli di uno Stato che, oggi come ieri, è debole coi forti e forte con i deboli. Diciassette anni dopo i faraonici progetti del Berlusconi bis contiamo i morti e torna vera la battuta che in Italia non serve il terrorismo integralista. Ci terrorizziamo da noi. Ormai possiamo tracciare l'anamnesi di ogni opera pubblica secondo le età. Il viadotto Morandi lo ha completato 51 anni fa la società Condotte, al tempo controllata dall'Iri e quindi dai partiti e dal loro sistema di finanziamenti più o meno illeciti. Ci saranno state mazzette? Cemento depotenziato? Acciaio un po' meno inox? Saperlo adesso, mezzo secolo dopo e con la conta dei morti di Genova, non serve a nulla. Condotte è stata venduta ai privati perché, dicevano, i privati gestiscono meglio. Infatti, è finita in concordato un mese fa. Anche Autostrade è stata privatizzata. È il sistema del capitalismo avanzato, ci hanno detto. Negli Stati Uniti si fa così, ci hanno ripetuto anni fa, quando le fake news si chiamavano ancora balle. Il ponte di Brooklyn è stato inaugurato nel 1883. Alla sua gestione e manutenzione provvede il Dot (department of transportation) della città di New York, soldi pubblici. Stesso schema per il Golden Gate di San Francisco, aperto nel 1937,0gni tanto qualche ultraliberista lancia l'idea che sarebbe meglio buttarli giù perché costano troppo. Lo ringraziano dell'opinione e continuano a riparare.
Nessun commento:
Posta un commento
La qualità e l’efficacia del blog dipendono quasi interamente dai vostri contributi. Si raccomanda, perciò, attinenza al tema, essenzialità e rispetto delle elementari regole di confronto. I messaggi diffamatori, scritti con linguaggio offensivo della dignità della persona, razzisti o lesivi della privacy, pertanto, non saranno pubblicati.