di Filomena Baratto
Vico Equense - Via Arvitiello è una stradina che da San Salvatore arriva a Bonea e da qui confluisce in un’altra fino a Vico. Mi sono sempre chiesta cosa significasse questa parola e credo abbia attinenza con la parola latina arvum,i, campo da lavoro. E forse sta per piccolo campo. Una definizione tanto opinabile quanto possibile. Da piccola mi piaceva percorrere questa stradina lungo la quale si alternavano muri laterali più alti di me ad altri più piccoli, stretta e poco agevole. La parte alta mi toglieva la vista di quello che c’era oltre. Mi limitavo a sbirciare tra le fessure, a strappare fiori e notare come le colonie di formiche e altri insetti correvano su e giù. A salire, soprattutto in estate, sotto il sole, da cui, per certi tratti, non ci si poteva riparare, era più faticosa. Di solito la percorrevo con mia nonna. E’ stato su questa stradina che un giorno, affacciandomi da un muretto collassato, vidi un ampio campo di grano con un uomo al centro. Mi colpirono i colori dei suoi abiti, troppo colorati e vivaci per un contadino. Aveva un grosso cappello, barba e pipa. Oltrepassai il muretto divelto e mi trovai nel campo sfuggendo alla vista di mia nonna che continuava a scendere. Fu un incontro ravvicinato con uno spaventapasseri. Rincorsi mia nonna, che non si era resa conto di nulla e continuava a scendere fischiettando. Quando le dissi della mia scoperta, lei si fermò, sedette e si fece una bella risata. Mi spiegò che se non ci fossero stati gli spaventapasseri, addio raccolto.
Gli omini dei campi di mio nonno erano approssimativi: un’asta con un cappello, la paglia sparsa in una giacca rotta, in balia del vento. Quello stesso omino nel campo, che io scorgevo infilandomi tra i sassi, divenne col tempo l’uomo nero e poi il “mammone”. Così non superai più il muretto. Lungo il percorso, tra sassi, erba folta e incolta e zolle di terra c’erano spesso ripari di animali tra cui serpi, di cui si sentiva lo strisciare ai bordi. Da alcuni punti vi era una visione stupenda di Vico dall’alto. In quei tratti facevamo uno spuntino per darci il tempo di ammirare. Dallo stupore stavo a bocca aperta. Il motivo per cui più spesso scendevamo a Vico per l’Arvitiello era quello di andare a giocare i numeri al lotto. Mia nonna vinceva quasi sempre e quindi si scendeva di lì almeno due volte a settimana. Mi piaceva quando si andava a riscuotere. Per strada facevamo mille progetti e tra le cose da acquistare non mancavano quaderni, penne e pastelli per me. Al ritorno portavo il mio sacchetto con gli acquisti e quando ero stanca mi sedevo da qualche parte. Mia nonna, durante la sosta, mi faceva lunghi discorsi, scherzava e rideva. Poi, quando stavamo per riprendere la salita, lei guardando giù verso il mare, mi diceva: “Guarda che paradiso!”. Per me il paradiso era altro e non un luogo noto come quello. Ma adesso che la memoria mi rimanda luoghi e voci, forse aveva ragione. Il paradiso è guardare anche con occhi pieni di affetto un luogo che custodisce le nostre scoperte e i pensieri maturati in un’epoca. E quelle scoperte non sono mai così vere come quando le apprezziamo col tempo. Quando scendevamo, la situazione cambiava: la speranza di vincere ci induceva a correre per portare integro il sogno su cui puntare. E tra questi c’erano anche i miei. A volte mi impuntavo, non volevo camminare a piedi e chiedevo di essere portata in braccio. Ma non c’era verso di convincerla, mi tirava come un vitello riottoso. Magari inciampavo, cadevo, urtavo, ma lei tirava il mio braccio in modo energico fino a quando non era mossa a pietà e si sedeva ponendomi sulle sue gambe: ma per convincermi a camminare. Dai bordi della stradina si affacciava sempre qualche buon’anima che ascoltando il mio pianto le chiedeva se fosse successo qualcosa. E mia nonna spifferava sogni e vincite, mentre io mi arrabbiavo. Dopo aver ricevuto frutti e fiori dalla donna a bordo campo, mi incamminavo silenziosa e contrariata per il nostro segreto svelato. Qualche volta l’ho percorsa con estranei e non aveva lo stesso interesse per me di quando andavo con mia nonna. Di tutti mio nonno era il più dolce: non mi tirava e non mi strattonava se non avanzavo. Mi parlava con un fare affettuoso, aspettava i miei tempi, rispondeva alle mie domande e ammirava la natura con me in silenzio. Ogni giorn c’era un fatto accaduto all’Arvitiello di cui parlare. Un giorno mia nonna mi lasciò indietro per correre a casa e io me la presi comoda, non sapendo di essere rimasta sola. Di fronte mi si parò un cane che mi pietrificò. Chiusi gli occhi paralizzata aspettandomi il peggio. Il cane, grande e grosso com’era, cominciò a scondinzolare e ad avvicinarsi. Fu il nonno a trovarmi con gli occhi chiusi e il cane nei paraggi. Già il “mammone” aveva fatto il suo, poi il cane, ma ci fu il terzo fatto eclatante. Questa volta fu un bue ingestibile per lo stesso padrone, incontrato in una curva, che mi mise addosso una paura tale da farmi cadere nel solco accanto al muretto. E lì svenni. Fu l’ultima volta che da bambina percorsi quella strada.
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