di Filomena Baratto
Vico Equense - Anche una giornata di pioggia ha il suo fascino per passeggiare nei luoghi che più amiamo. Uno di questi è Trina del Monte. L’ultima volta ci sono stata qualche anno fa. Mia madre mi portava spesso da quelle parti quando ero bambina, con la speranza che l’aria mi facesse venire più appetito. In una delle ultime volte che ci sono andata, ho notato, all’inizio del sentiero che porta da quelle parti, un fusto arrugginito nell’erba. Era come una collinetta al centro del prato. Saltava agli occhi per la grandezza e per essere completamente arrugginito. La nostra passeggiata non è stata certamente interrotta dal fusto arrugginito a mo’ di cimelio lì sotto gli occhi di tutti, ma nessuno si chiese il motivo per cui fosse lì. A guardarlo bene, aveva l’aria di un meteorite caduto dal cielo. Mi giravo indietro, mentre proseguivo, per notare se qualcuno si soffermasse e avesse la mia stessa reazione a riguardo. Tutti tiravano dritto. Poi che ci siamo fermati più in là ad ammirare una vista strepitosa, ho chiesto del bidone abbandonato. Vaghe sono state le risposte. Mi sono comparsi i versi alla fine del primo libro delle Georgiche di Virgilio: “agricola incurvo terram molitus aratro/exesa inveniet scabra robigine pila/aut gravibus rastris galeas pulsabit inanis…(l’agricoltore smuovendo la terra con il curvo aratro troverà giavellotti corrosi da scabra ruggine, o coi pesanti rastri colpirà elmi vuoti). Qui nessun aratro o rastri avevano smosso le zolle, ma era finito lì. Per mano di chi? Nei versi il contadino rivolta la terra dopo la fine della guerra, qui ce n’è una silenziosa, senza eserciti o generali ma lascia tante tracce indelebili. Forse tra qualche anno i nostri figli e i figli dei figli troveranno, scavando, quello che oggi noi guardiamo con indifferenza. La terra copre e scopre tutto, nulla dimentica.
Poco più in là dal fusto si apre una vista spettacolare e non riesci ad ammirare il panorama se poco prima ti imbatti in un bidone arrugginito che deturpa la bellezza della natura. Siamo così saturi di veleni che non facciamo più caso a quello che ci gira intorno. A quel punto, dove mi trovavo con la comitiva, da piccola mi ergevo su un masso a braccia aperte per contenere quello che mi si poneva davanti, mentre mia madre si sedeva con il mio sacchetto pronta per la sua missione. E ce ne tornavamo solo quando avevo finito. “L’aria buona”, diceva lei, “vado lì per l’aria buona, di mare e di monte e lei mangia volentieri”. Mangiavo e giocavo, saltavo sulle rocce, salivo e scendevo facendole perdere la testa. Tra le sue mani la povera frutta si agitava nel sacchetto e la scodella del cibo ballonzolava. Quando riuscivo a stare ferma, ci sedevamo vicine a guardare l’orizzonte. I tramonti erano speciali, il mare sempre invitante, la montagna verde o rossa in base alla stagione e nel prato tanta vita nascosta. Il progresso ci ha riempiti di scorie e rifiuti che non sappiamo più come smaltire. Il posto di un fusto arrugginito non è certamente nel prato, se non vogliamo finire per credere che quella sia la normalità.
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