di Filomena Baratto
Negli anni ‘70 andava in vacanza il 28% degli italiani, che sceglieva il mare come meta per rilassarsi. Erano 4 settimane filate che si trascorrevano in spiaggia. La vacanza si chiamava villeggiatura. Lì, tra ombrelloni e battigia, trovavi il pallavolista, il corridore, il saltatore, il tuffista, il ginnasta…un festival dello sport all’aperto. Si prendevano certe rincorse da metà spiaggia verso le onde dove si finiva con un capitombolo. E poi ci si copriva con la sabbia fino al collo per saltare fuori all’improvviso e correre a sciacquarsi. In acqua tutta la gamma dei gonfiabili: le ciambelle, i lettini e canotti colorati. A riva i secchielli, palette, formine. Si andava in spiaggia a intere famiglie con le teglie di pasta nascoste nelle borse, tra i bikini e i borselli colorati, i ricambi e i teli arrotolati. E poi i braccioli, i costumi, le pinne, i giornali. Dopo il bagno era normale cambiarsi il costume avvolgendosi un telo intorno, con aria indifferente, spogliandosi sotto quella sorta di tenda che riparava sì, ma che lasciava trapelare qualche lembo di pelle. E dopo subito un panino per placare la fame. E c’era tempo per pomiciare sdraiati sullo stuoino, all’ombra o sotto il sole e, proprio per stare in mezzo agli altri, nessuno ci faceva caso. Si raccontavano barzellette, a gara a chi faceva più ridere, o si restava sotto il sole a raccontarsi. Si andava a mare con le amate utilitarie di una volta da cui usciva una casa intera, con il tetto stracolmo di roba mantenuta da elastici. E dall’auto si scendeva con in mano l’ombrellone, le borse stracolme.
Il concetto importante era che andare a mare era necessario, per l’aria e il sole, importanti per la salute. Si era disposti a fare lunghe file di traffico pur di raggiungere la località desiderata.
Negli anni 80 la vacanza è diventata irrinunciabile. Comincia l’era dei villaggi turistici, ricchi di ogni comfort. Si parte per staccare completamente dalla routine e cambiare ritmi. I costi aumentano e quando si torna a casa ci si ritrova più stanchi di prima. Dopo sono cominciate le partenze intelligenti, i voli, le spiagge lontane, snobbando quelle a portata di mano. Si viaggiava per il mondo e al ritorno ci si riversava sui lidi di casa. Il mare è diventato sempre più affollato di barche ormeggiate di fronte alle spiagge, simbolo di un benessere crescente. Così la spiaggia privata ha preso il sopravvento, presentando, a un pubblico esigente, ogni tipo di comfort.
Scendere in spiaggia oggi e trovarsi in un recinto, uno spazio delimitato allontana subito dai ricordi. Una spiaggia dai nuovi stili di vita per assicurare il distanziamento. Ci si reca a mare con ansia, rabbia, malessere, sentimenti che non vanno d’accordo con lo stato d’animo vacanziero. La postazione, l’app, l’orario da
rispettare per consentire turni ad altri bagnanti, il comportarsi come se sostenessimo un lavoro mette in una cattiva predisposizione. In spiaggia siamo seri, guardinghi, molto tesi, un po’ preoccupati. I giochi sono ridotti, tutto deve essere sotto controllo togliendo un po’ di serenità. E’ finito il tempo di attardarsi in spiaggia fino al tramonto. Si sta come le foglie d’autunno, direbbe Ungaretti, dove mangiare è un sacrilegio e leggere impossibile. Per darsi alla lettura bisogna sentirsi liberi e quando incombe un pericolo non si può leggere. Si è costantemente scossi, per non trovare posto, per il tempo contato, per controllare se gli altri mantengono il rigore richiesto a noi, se qualcuno infrange le regole, se siamo trattati alla stessa stregua degli altri. E’ diventata una sorta di trincea, da cui ci si affaccia come a una finestra per capire ciò che puoi o non puoi fare. Vietato giocare o stare in gruppo. Mantenersi a debita distanza. La libertà sta assumendo un altro valore: quello di nuocere a se stessi. Dell’estate di una volta resta la nostalgia e il juke box di una che dava “sapore di mare”, i sorbetti e i gelati consumati a ritmo dei tormentoni estivi, mentre oggi anche la musica a mare sembra un controsenso. Allora la spiaggia era un richiamo e attrazione per giovani, adulti e bambini.
Oggi i bambini vedono il tempo ridotto e mentre si adattano, devono andare via lasciando la spiaggia nel bel mezzo del gioco. Per i bambini passare la giornata in riva al mare è il più bel regalo. Impareranno a distanziarsi, a contenersi, a fermarsi prima che scada il tempo, a non capire chi o cosa vieta di restare. Una volta sotto l’ombrellone i bambini ci vivevano, mangiavano, dormivano, prendevano il sole, giocavano con gli amici, scavavano, costruivano. Come la scuola, si devono accontentare anche della spiaggia a metà. Li abitueremo a non approfondire, a lasciare le cose incomplete, a essere approssimativi. La lentezza non è un difetto, ma un bisogno dell’animo nell’apprendere. Nelle lunghe dormite in spiaggia di una volta, nei giochi con le racchette, le palle, i birilli e i castelli di sabbia si svolgeva una vita interessante che restava scolpita in mente. Così un relitto di nave sulla spiaggia, per me, era un momento di gioco e di immaginazione, sui cui bordi mi sedevo a mangiare il panino, a spalmare la protezione. A volte era una cabina a cielo aperto dove mi cambiavo il costume, quello turchese pezzo intero profilato di blu. Una memoria che custodisce così bene il vissuto di una volta che oggi, vedere quello che resta a quel posto, faccio fatica a riconoscere lo stesso luogo. Le spiagge allora sembravano immense, perché eravamo piccoli, ora sono strette e cementate. Il mare insegna tante cose e l’estate sulle sue rive è quello che di più naturale si possa vivere. Ma tutto questo non dovrebbe avere un costo, dovrebbe essere un diritto di tutti, senza vincoli né barriere e lasciare ancora un senso alla libertà.
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