Dalla pax americana alla pax cinese? L'occidente declina l'oriente sorge? La lezione della storia e l'astuzia della ragione
di Raffaele Lauro, segretario generale Uninpresa
1. Nel saggio "Viêtnam: la ricerca della pace perduta", stampato, nel 1969, per i tipi de "La Massese", frutto delle ricerche, a Parigi, nel corso del biennio 1967/68, presso la "Documentation Francąise" e il "Quai d'Orsay", e nel breve saggio successivo, del 1986, "A look at China: political and economic notes", ebbi modo di approfondire due questioni, preludio di temi odierni di grande rilevanza: le ragioni (vere) della sconfitta americana in Afghanistan, con la precipitosa ritirata da Kabul; l'affermazione della Cina sulla scena globale e l'avanzata della pax cinese, al posto di quella americana. La prima questione: la guerra di Indocina e la sconfitta francese, con la fine dell'occupazione coloniale, la conferenza di pace di Ginevra del 1954, la nascita della Repubblica del Viêtnam, la guerriglia comunista contro il governo del Viêtnam del Sud, sostenuto dagli Stati Uniti con il progressivo coinvolgimento militare americano, dal 1965 in poi. Coinvolgimento che durerà, nonostante gli Accordi di Parigi del 1973, fino alla sconfitta finale, con la caduta di Saigon del 30 aprile 1975.
Sconfitta preconizzata, sin da allora, per una ragione fondamentale: le laceranti ricadute interne sulla società americana e la conclamata debolezza della democrazia, rispetto ai regimi totalitari, vincolata agli appuntamenti elettorali, nel sostenere una guerra senza fine, con migliaia di vittime e accuse di atrocità belliche ("Apocalypse Now", il film F. F. Coppola è del 1979!), condizionanti il consenso dell'opinione pubblica e del corpo elettorale. Militarono, naturalmente, anche altre concause, emerse, poi, nel bilancio catastrofico della prima sconfitta militare USA: la corruzione, l'inefficienza e la dissoluzione della dirigenza governativa sudvietnamita; l'insuccesso dell'addestramento delle milizie e delle esperienze amministrative locali; il fallimento dei piani di sviluppo economico e di pacificazione; gli errori di strategia militare contro la guerriglia e, non da ultimo, il costo della guerra, gravante sui contribuenti americani: circa 170 miliardi di dollari. La seconda questione: dopo la morte di Mao e lo sconquasso economico, generato dalla "Rivoluzione culturale", la seconda generazione dei dirigenti comunisti, incarnata da Deng Xiaoping, aveva inaugurato la fase della modernizzazione della Cina, con l'apertura al commercio estero e l'attrazione degli investimenti stranieri sul territorio cinese, mediante incentivi fiscali e doganali. Interpretai, in quella svolta epocale, la fine delle vecchie ideologie, marxiste e leniste, la nascita del "socialismo di mercato" e l'atto di nascita di una futura potenza economica, industriale, commerciale, finanziaria e tecnologica, di rango mondiale. Le altre due generazioni, successive a Deng, padre della Cina moderna, impersonate da Jiang Zemin e da Hu Jintao, continuarono il lavoro di modernizzazione fino alla presa di potere di Xi Jinping, nel 1973, la cui dottrina politica, in continuità con il recente passato, era espressa dallo slogan del "sogno cinese": l'Occidente declina, l'Oriente sorge. Un sogno, inteso come risorgimento e come inaugurazione di una nuova era, in cui la Cina aspirava (e aspira!) a dominare la scena politica internazionale, al posto degli Stati Uniti, per diventare, entro un trentennio, una nazione socialista "forte, democratica, civilizzata, armoniosa e moderna". Utilizzando, a tal fine, due leve operative: quella interna (la forte presenza del partito nella società, con un controllo capillare, assicurato dal binomio partito-esercito) e quella esterna (la penetrazione culturale ed economica delle rotte commerciali, con il piano della "Via della Seta", finalizzato a connettere la Cina con l'Europa, il Medio Oriente e il Sud-Est Asiatico). Un neoimperialismo economico, quindi, a supporto dell'aspirazione a diventare la prima potenza mondiale, in grado di affermare la nuova "pax cinese", al posto della "pax americana". Un progetto non segreto, ma pubblico, fulcro del pensiero politico di Xi Jinping.
2. Dopo l'attacco terroristico alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001, di cui, tra giorni, ricorre il tragico (e, alla luce degli eventi presenti, quasi beffardo) ventennale, gli Stati Uniti reagirono, lanciando la guerra in Afghanistan, come guerra globale contro il terrorismo di matrice islamica. Vent’anni dopo, come in Viêtnam, si è verificata la seconda grande sconfitta, politica, militare e strategica, del gigante americano, con diverse aggravanti: l'aver coinvolto la NATO e gli alleati occidentali, decidendo, poi, il ritiro, in atto, senza concordarlo con gli stessi, ma soltanto "informandoli"; l'aver degradato, di colpo, il conflitto da globale a regionale, senza aver valutato le conseguenze geopolitiche, strategiche e, principalmente, umanitarie per il popolo afghano; e, evento del tutto sconcertante, nell'essersi lasciato sorprendere dalla fuga improvvisa dei governanti e dallo spappolamento, ad horas, dell'esercito afghano, alla faccia del lavoro dei consiglieri e degli istruttori militari occidentali. Un'autentica beffa per l'intelligence, non soltanto americana, ad oggi del tutto inspiegabile! Ad una prima analisi, appare evidente che le cause di questa disfatta, a partire dalla ragione principale, coincidano perfettamente con quelle della sconfitta in Viêtnam, però con un costo "monstre" (si calcola una cifra intorno a migliaia di miliardi di dollari). La ragione principale di questo cambio di rotta rimane lo stesso: l'insostenibilità, per una democrazia, a reggere una guerra senza fine e senza risultati stabilizzanti. Specie di una democrazia in crisi, come quella americana, tuttora lacerata da un conflitto insuperabile tra gli opposti partiti, dopo una campagna elettorale devastante, con risultati contestati e senza riconoscimenti reciproci, nonché con un punto di caduta eversivo, senza precedenti: l'assalto dei fanatici trumpiani a Capitol Hill e al Congresso, cuore della democrazia statunitense. Saranno gli storici, a parte gli errori evidenziati, a giudicare l'operato della presidenza Biden, se determinato da realismo o da improvvisazione, tuttavia con la presa d'atto degli sbagli, commessi anche dai suoi predecessori, compreso l'ultimo, lo sbraitante Trump, che lo accusa di tradimento della causa, a conferma del clima rissoso che continua a tenere in ostaggio la vita del paese. Pesano, comunque, pesanti interrogativi sul futuro. Riusciranno gli Stati Uniti a ritrovare il filo della loro centralità, a livello mondiale, memori della dottrina Truman, come accade dopo la prima sconfitta, a rilanciare la NATO, a ricomporre i rapporti lacerati con gli alleati occidentali e a ricostruire il "sogno americano", prima per il suo popolo e, poi, per quanti hanno guardato a loro come il luogo sacro della libertà e della democrazia? America is back, non solo chiacchiere? O prevarrà la dottrina di Xi Jinping, la vittoria delle dittature sulle democrazie e l'ecclissi definitiva della "pax americana", sostituita da quella cinese, con l'Occidente che declina e l'Oriente che sorge? 3. Resterà da valutare, nel contenimento dell'espansionismo cinese, dopo le convergenze antiamericane e la spartizione delle sfere di influenza nelle repubbliche dell'Asia centrale e nello stesso Afghanistan, il ruolo che vorranno giocare l'autocrazia russa di Putin e altre potenze regionali, a partire dall'India e dalla Turchia di Erdogan. Di contro, bisognerá comprendere, come e in quale misura, gli Stati Uniti, nel superamento del loro neoisolazionismo, saranno supportati dagli alleati tradizionali, europei e non, che siedono nel G7, al fine di rinvigorire l'alleanza atlantica, non più a parole, ma contribuendo in maniera concreta. Su questo scenario internazionale, cosi cangiante e ribollente, peseranno anche due nemici striscianti: la pandemia sempre più indomabile e la ripresa degli attacchi terroristici dell'Isis, che non tarderanno a manifestarsi. Nonostante il quadro, tuttaltro che confortante, resiste la fiducia nell'astuzia della Ragione, che governa la Storia, intesa come Storia della libertà, il cui spirito potrebbe "trasformarsi e trasfigurarsi" (Hegel), sorprendendo i tiranni del tempo presente.
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