di Conchita Sannino da La Repubblica Napoli
L'urlo dei 50 mila del Maradona resterà nella memoria a lungo. «Solo qui è possibile vedere uno stadio gremito e carico anche senza la squadra in campo»: il sindaco Gaetano Manfredi era fra quelli che hanno festeggiato davanti agli otto maxi schermi a Fuorigrotta. L'ultimo tratto è stato sudato. «Sì. E l'emozione è molto grande, un'onda lunga partita mesi fa che culmina nella gioia di un popolo. È la vittoria di una grande comunità. A pensarci, questo finale un po' sofferto somiglia di più alla storia di Napoli e alla fatica che deve fare». Il terzo scudetto in tre parole? «Organizzazione: la capacità di programmazione della squadra. La Multiculturalità: campioni che vengono da tutte le parti del mondo, che si sono integrati e testimoniano la propensione di Napoli all'accoglienza, il suo Dna ma anche la sua modernità. E poi il Talento, immenso. Anche i nostri detrattori, i più cocciuti, sono stati costretti a riconoscerlo». Il Napoli ha dato alla città. Ma il Comune come ripaga il Napoli e i tifosi: quando miglioreranno i servizi intorno al Maradona? «Dobbiamo migliorare su questo. Servizi, parcheggi, spazi. Contiamo sull'Europeo 2032 che porterà attenzione e investimenti su 10 stadi, e Napoli coglierà questa occasione. Prepareremo un Masterplan». Quante risorse servono, da chi? «Ci vorranno oltre 100 milioni». Lei e De Laurentiis siete assai diversi. Ma cosa unisce il sulfureo presidente e il pacato sindaco ingegnere? «Due cose. Vedere la napoletanità come profondo fattore identitario: ma proiettato nella modernità, non prigioniero del suo passato. E sapere che l'unica dimensione della nostra capitale è quella internazionale. Napoli è Napoli quando guarda al mondo, punto d'unione molto forte tra noi».
Sindaco, la più bella partita? «Una? Tra tante, strepitose, il 4-1 al Liverpool. Oltre che una partita straordinaria, il segno del livello europeo, di una squadra potente». Aspettarsi che tutto questo, in automatico, cambi le sorti della città non è un po' illusorio? «Secondo me, serve. Ha già inciso sulla narrazione della città. Il racconto di questi mesi si allontana da rappresentazioni stantìe, di cui abbiamo spesso sofferto e invece presenta una città più aperta, dinamica e competitiva». Ma gli stereotipi vengono più dall'estero o dall'Italia? «Dall'interno. Imbarazzante vedere come nel nostro Paese ci sia a volte un'arretratezza nel guardare a Napoli, mentre noi correvamo così tanto da aver lasciato gli altri a venti punti. Ma io lo sapevo già». In che senso? «L'ho misurato quando ero rettore: eravamo in trattative per portare Apple alla periferia est di Napoli. In Italia mi dicevano: non verranno mai! Invece gli americani sono venuti a San Giovanni a Teduccio, e si sono innamorati del posto. E Tim Cook è venuto di recente, dice che quella è la più bella esperienza fuori dagli Usa». Anche i napoletani devono imparare da questa storia? «Certo, mi auguro che questo percorso, esaltante, aiuti i napoletani ad acquisire una consapevolezza, razionale, delle proprie potenzialità. Che non bastano da sole ovviamente. Abbiamo patito i pregiudizi. Ma è ora, tutti, di voltare pagina». Confessi, ora, davanti al titolo: il suo cuore di juventino ne è trafitto? ( ride) . «No, lo ero da giovane. Ora Napoli, e il Napoli, vengono prima. E ce l'ho messa proprio tutta, non solo io ma il Comune, perché la città fosse all'altezza di una splendida squadra».
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