Possiamo considerare l'elezione di Nicolais e l'insediamento del suo gruppo dirigente al vertice del Pd napoletano una reale innovazione? Bisogna distinguere. In politica esiste una innovazione di ceto e una di sistema. La prima consiste in un ricambio di personale politico. Non necessariamente produce cambiamenti di metodo, anzi il più delle volte la «circolazione delle élites» di cui parlava Pareto garantisce la stabilità del sistema, perché riduce i conflitti connessi alla sclerosi delle posizioni: chi è fuori dal sistema se ha la possibilità di entrarvi, di accedere alle posizioni di comando, sarà meno indotto a esercitare pressioni per cambiamenti profondi, soprattutto se la selezione avviene prevalentemente per cooptazione. Le innovazioni di sistema invece riguardano cambiamenti ben più profondi e radicali, di metodi, contenuti, prospettive. In genere esse ricorrono in situazioni di crisi, quando le condizioni ambientali richiedono salti qualitativi adeguati. È difficile sostenere che il Pd — e quello napoletano in specie — non sia in una di queste situazioni. Eppure l'impalpabilità della nuova leadership di Nicolais rischia di prefigurare una semplice alternanza al potere di élites interne e dunque prevalentemente autoreferenziali. A sostegno di questa ipotesi ci sono le modalità con cui è nata: non un vaglio elettorale ma una promozione da «tecnico» prima nell'esecutivo regionale, poi al governo e infine nelle liste bloccate per il Parlamento. Fin qui l'operazione è tutta interna alla dirigenza di partito. Per quanto siano evidenti le posizioni di critica alle attuali amministrazioni locali, non si intravede neppure lontanamente un cambio di passo. Qualcuno poteva ingenuamente immaginare che l'apnea del Pd napoletano fosse giustificata dall'attesa delle annunciate dimissioni di Bassolino, che avrebbero, passata la buriana dell'emergenza rifiuti, consentito l'apertura di un nuovo ciclo politico. Ma ora che anche questa ennesima foglia di fico è caduta, la leadership di Nicolais rischia di ridursi alla sua matrice originaria: un patto di potere nato a Roma e calato dall'alto su Napoli. Un'altra forma di commissariamento — e mortificazione — della città. Naturalmente non tutto è così scontato, la cinica logica politica può risultare smentita da un colpo d'ali. Ma bisognerebbe cominciare a parlare all'opinione pubblica senza trastullarsi nell'eterna querelle del tesseramento che non parte per le faide e le irregolarità interne. Quello viene dopo e non prima. Su che basi altrimenti si chiede ai cittadini di partecipare al nuovo partito? Per esempio. In molti settori cittadini ci sono uomini e donne di area progressista con importanti competenze nelle associazioni, nella rappresentanza degli interessi, nelle professioni. Nel campo delle politiche sociali, della scuola, della cultura, nel mondo imprenditoriale e della finanza, ci sono uomini dotati di autonomia di pensiero che nel frattempo sono andati avanti. Ci si aspetterebbe che venissero consultati, che gli fosse proposto di condividere un progetto di rinnovamento, che gli venisse chiesto di assumersi in prima persona responsabilità importanti. Ma allo stato nulla di tutto ciò si è visto. Luciano Brancaccio da il Corriere del Mezzogiorno
An spaccata tra revisionisti e antifascisti: e i «napoletani» da che parte stanno?
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