«Non tratto, prendere o lasciare»
I cinque punti, «processo breve» e riforma del Csm compresi, non sono negoziabili. È un 'prendere o lasciarè quello che Silvio Berlusconi mette sul tavolo di Gianfranco Fini. Il premier, ai dirigenti presenti a palazzo Grazioli per un vertice sull'organizzazione del partito, lo dice chiaramente: non accetteremo un voto sul 95% della mozione che conterrà i cinque punti programmatici, non intendiamo trattare sul 5% relativo alla giustizia. Parole chiarissime, che suonano come l'ennesimo ultimatum. Il tono da aut aut, racconta chi era presente, è dovuto però al primo destinatario: Italo Bocchino. Non a caso il riferimento è alle parole del capogruppo alla Camera di Futuro e Libertà. Anzi, i presenti giurano che il bersaglio del Cavaliere sia stato più lui che non l'ex leader di An. Come quando ha puntato il dito contro i «soliti tre cattivi consiglieri» che vogliono solo alimentare lo scontro. Un chiaro riferimento a Bocchino, a Granata, a Briguglio. Certo il premier non è tenero neanche con Fini. Non ha più fiducia in lui, il rapporto è definitivamente incrinato. Ma soprattutto si chiede cosa veramente abbia in mente. Guarda con preoccupazione al meeting di Mirabello, dove il leader di Fli riunirà i suoi. Gli ex colonnelli di An lo hanno ampiamente rassicurato sul fatto che non avrà il coraggio di dar vita ad un nuovo partito. E il Cavaliere sembra crederci, ma in ogni caso chiarisce: se dovesse farlo «tradirebbe» gli elettori, prendendo una strada senza ritorno sia per la maggioranza che per il governo. E dovrebbe dimettersi, aggiunge uno dei presenti. Purtroppo non credo lo farà, si limita a rispondere Berlusconi. Parole che confermano come una ricucitura sia praticamente impossibile. Il Cavaliere, lo ripete da tempo, non intende farsi logorare. Allo stesso tempo, sa che lanciando ultimatum rischia solo di compattare la compagine finiana. Ma al di là del fatto che non riesce a trattenere i suoi umori, è arrivato alla conclusione che l'unico modo per dividere i finiani 'moderatì dai falchi sia quello di metterli davanti ad una scelta chiara: sostenere il governo o rischiare le urne. È sua convinzione infatti che in molti, in caso di redde rationem parlamentare, non seguiranno il loro leader. Sono stati leali con Fini, a maggior ragione lo saranno con i loro elettori, ribadisce. Ecco perchè, salvo qualche defezione (a cui comunque stanno lavorando i berlusconiani), il premier è sicuro che il momento della verità si avrà solo in aula. E non certo sulla mozione, visto che con tutta probabilità, i finiani la voteranno comunque, salvo poi presentare emendamenti sui provvedimenti come avvenuto sul ddl intercettazioni. Esattamente ciò che il premier non vuole. Nel frattempo, come spesso succede, gioca su più tavoli. Manda innanzitutto segnali a Pier Ferdinando Casini. Dovrebbe venire con noi, spiega durante il vertice, sottolineando che i centristi ne trarrebbero vantaggio anche in termini elettorali. Berlusconi sa bene però che l'Udc non intende entrare nel governo. Al massimo, come spiega Casini, potrebbe sostenere alcuni provvedimenti per senso di responsabilità, ma nulla di più. E un «appoggio esterno» potrebbe non bastare al premier, soprattutto per ottenere un nuovo scudo sulla giustizia se la Consulta bocciasse il legittimo impedimento. Ecco perchè quella delle urne resta una ipotesi concreta. Berlusconi ostenta sicurezza: ai suoi racconta di non essere minimamente preoccupato dai sondaggi che danno la Lega in forte crescita. Con Bossi, ripete, ho un rapporto solidissimo e un eventuale loro successo elettorale non costituirebbe un problema per il Pdl, ma anzi gli consentirebbe di superare il 50% dei consensi. Ma qualche dubbio deve pur averlo se con altrettanta chiarezza ripete a tutti di non voler andare al voto. Ufficialmente per mantenere l'impegno con gli elettori; ufficiosamente perchè incerto sull'atteggiamento del Quirinale (da qui il rinnovato invito a non polemizzare col Colle) e sul risultato in Senato. Ad ogni modo, meglio prepararsi. E così decide di procedere con l'operazione «squadre della liberta»: in sostanza, sotto lo stretto controllo dei tre coordinatori, i leader dei club e dei circoli (Dell'Utri, Brambilla, Valducci e Mantovano) dovranno mettere in campo un «esercito» di simpatizzanti da schierare nelle oltre 60mila sezioni elettorali. (L’Unità)
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