di Filomena Baratto
Vico Equense - Nella rumba degli scugnizzi di Raffaele Viviani, ci sono alcune espressioni che richiamano tradizioni e abitudini del nostro territorio, tra queste anche quella delle Pacchianelle. Nella commedia di Viviani la pacchiana viene presa in giro per il suo “campo di fave” ovvero il suo lato b, rappresentata con un “mantesino”, dal latino ante-sinum, una contadinotta vestita in modo stravagante e appariscente. La pacchianella fa parte della tradizione vicana da circa un secolo, da quando prese inizio il presepe itinerante grazie al frate Pasquale Somma che per la prima volta nel 1909 vestì alcune bambine da contadinelle che portavano doni a Gesù. Quest’anno si festeggia la sua 107 esima rappresentazione. Anch’io, da piccola, partecipavo alla bella manifestazione della Befana e prima di me anche mia madre. Lei aveva sempre il ruolo della Madonna, una parte ad hoc per il suo viso angelico, capelli morbidi e ondulati, con un’espressione seria e dolce. Era accompagnata sempre dalla sua amica Nannina. Dopo di lei toccò a me. Ero la pacchianella di casa fino a quando andai via da Vico con la famiglia. Allora, nella nuova scuola amavo raccontare i miei ricordi tra cui anche quelli che mi vedevano figurante del presepe. Ma i miei compagni mi prendevano in giro ogni volta che pronunciavo la parola pacchianella, tanto che per un bel po’ mi chiamavano così e non per nome. La festa prevedeva una lunga preparazione tra vestiti, sarte da impegnare, animali da cortile da allevare per poter portare al presepe i doni migliori. Da bambina per nulla al mondo vi avrei rinunciato.
Al settimo anno d’età, prima del fatidico giorno della Befana, mi beccai la febbre. I nonni ci rimasero male per tutto il lavoro che avevano concentrato su di me. Nel pollaio c’era tutto l’impegno profuso del nonno, così come per la sarta di Massaquano, Eleonora, che aveva già preparato il vestito e io invece avevo la febbre, una delle poche volte in cui ricordo di avere avuto la febbre. Quel pomeriggio, anche se la nonna aveva perso le speranze, io scesi dal letto, mi vestii con abiti normali sotto il costume di pacchianella. La decisione la presi mentre misuravo la febbre, dicendomi che per un paio d’ore avrei potuto sopportare.
Dopo feci calare la temperatura della colonnina di mercurio e lasciai il termometro sul comodino. La nonna entrò nel momento in cui mi accingevo a scendere. Ricordo la sua smorfia di un “O” più ampio dell’urlo di Munch mentre io la rassicuravo di non avere più febbre. So che non credette alla storiella, diciamo pure che fu mia complice con grande piacere. I capponi che sollevammo in due grossi cesti, non avevano niente a che vedere con quelli di Renzo per Azzeccagarbugli, sembravano capponi culturisti. Feci buon viso a cattivo gioco per la febbre e il peso, con quella bestia che mi copriva tutta, e così malconce ci incamminammo per la stradina di Avigliano che portava a San Salvatore. Sul sagrato della chiesa mi vennero incontro gli amici che subito si resero conto della mia sofferenza. Dissi loro che avevo delle pessime tonsille prossime a toglierle, ma stavo bene, salvo poi a vedere i miei occhi lucidi quasi a lacrimare che parlavano della mia febbre. Nella fretta di vestirmi avevo indossato un cappello di lana e su un foulard con i quattro punti raccolti con una spilla da balia al centro del capo, ma lo posizionai troppo avanti. Le mie amiche volevano aggiustarlo ma io non mi feci toccare: avevo freddo. La Madonna quando mi vide quasi piangeva ma mi confidò lungo il percorso che anche lei aveva la febbre e allora vivemmo questo momento, consapevoli di non poter mancare e in condizioni pessime, come se fossimo indispensabili alla rappresentazione. Strada facendo il cappone mi beccava, il cappello si spostava e il foulard offuscava la mia visuale. La nonna accanto a me, con l'altro cappone, mi incoraggiava dicendomi che il giorno dopo avrebbe chiamato il medico a casa, che di sera mi avrebbe dato lo sciroppo, che dovevo mangiare e tutto questo mentre faceva battibecchi con mia madre, alla mia destra, che sapeva della nostra complicità. Fu una vera sofferenza ma per niente al mondo sarei mancata all’appuntamento. Mi sentivo parte integrante di quella scena, di quel progetto, della tradizione. Ricordavo le fasi del lavoro precedente, i momenti di condivisione con gli altri per organizzarci, una forma di collaborazione che ci rendeva anche autonomi sin dalla tenera età. Trovo queste tradizioni molto formative, in quanto rafforzano le nostre radici, fanno sentire di appartenere a un gruppo, a un luogo, a un tempo irrinunciabile e unico.
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