di Filomena Baratto
Vico Equense - Le parole straniere ci aiutano a spiegare aspetti sociali, anche se ne abbiamo di equivalenti per definire gli stessi concetti. Nelle parole inglesi c’è in più l’illusione di trovarci anche la soluzione. Così preferiamo parlare di “team building” per esempio, al posto di “lavoro di squadra”. Per noi la squadra è solo quella di calcio, l’unica di cui siamo forniti, che deve funzionare al meglio ai fini della vittoria. Proprio dal gioco dovremmo imparare a costruire un team di lavoro, peccato che releghiamo questa tecnica solo ai giocatori in campo. I programmi scolastici prevedono tecniche di socializzazione sin dalla Scuola dell’Infanzia e, quanto più una classe è eterogenea, tanto più si devono cercare le strategie giuste per poter collaborare. Ma quali sono gli aspetti da sviluppare per creare una squadra che funzioni, facendo in modo che le divergenze si trasformino in fattori di crescita e non restino limiti? In un gruppo vario si impara che avere idee diverse non è una disgrazia, ma un modo per confrontarsi e crescere insieme. Si impara che gli altri vanno rispettati se si vuole avere di conseguenza rispetto, che la prevaricazione è una forma di violenza, che quando ci sono delle divergenze, bisogna trovare un punto comune e quando si è in completo disaccordo, bisogna discuterne. Si diventa gruppo acquistando fiducia reciproca, approfondendo la conoscenza del sé attraverso e con l’aiuto degli altri, favorendo i momenti per farlo. Ci sono regole che devono essere interiorizzate sin dai banchi di scuola, come l’abc della vita. Un team deve trovare però delle affinità, dei punti in comune su cui fare leva, per entrare in piena sinergia.
Quando a scuola arriva un bambino nuovo, questi si tiene in disparte, mentre gli altri lo evitano. Tutti abbiamo paura di ciò che non conosciamo e molto spesso, invece di interessarci a lui, lo evitiamo per una forma di pigrizia o per chiuderci in un mondo tutto nostro che poi si rileva piccolo e ristretto. Nel team c’è poi sempre un mediatore, che modera, smorza e diluisce le emozioni, le intenzioni, i disaccordi. La sua forza è negli aspetti comuni e non nei difetti di ciascuno. Spesso si guarda l’altro solo con gli occhi della diffidenza, soprattutto quando mostra di non pensare come noi. In quel caso non ci si impegna nemmeno a capire ma si effettua l’operazione più semplice da fare, quella di escludere e ignorare. Si tende, poi a cooptare persone che possano esserci utili o che conosciamo bene e che quindi possiamo soggiogare, o persone che non temiamo, né stimiamo. Di solito reputiamo il gruppo come uno stuolo di persone da addomesticare ai nostri voleri facendo ricadere la scelta su quelli che non si oppongono e non intralciano il nostro operato, non discutono e accettano quello che proponiamo. Tra i sentimenti negativi che nascono al suo interno e che ne minano la vitalità ci possono essere la troppa ambizione di alcuni, il volersi servire degli altri e il calpestarli. La comunicazione, poi, quando non è efficace, fa perdere la fiducia soprattutto quando sono più le cose omesse che quelle dette. Quando la comunicazione cade, alziamo muri con cui lasciamo fuori gli altri, ma dobbiamo anche capire cosa ci siamo persi o a cosa andiamo incontro. La nostra superbia ci fa credere, erroneamente, di non aver bisogno del prossimo e che bastiamo a noi stessi, non accettando che, a volte, abbiamo persino bisogno del nemico. Una squadra è fatta da tutti, nessuno escluso, dove l’attaccante non è più importante del portiere o del difensore. Tutti in relazione ai loro ruoli e posizioni. Un gioco di squadra include anche la sconfitta che tante volte diventa il preludio di una vittoria, senza crederlo. Intelligenza, disponibilità, apertura mentale, comprensione, partecipazione sono indispensabili per collaborare. Come il calcio, ognuno può subire falli, ammonizioni, rigori e fuori gioco. Peccato che il gioco più bello del mondo lo lasciamo allo stadio e non lo viviamo anche nella vita. Fuori dall’Italia esiste il team building, che non è dato come un pacchetto preconfezionato, ma un gruppo è sempre “in fieri”, in continuo divenire. Anche una partita la si costruisce con tanto allenamento, con un allenatore che predispone gli esercizi, con sacrifici alimentari e ritmi di vita ordinati. Un gruppo è veramente forte quando accetta anche il diverso mettendo a punto strategie di integrazione, così che non si isoli. La sua qualità principale è quella di affrontare ogni situazione allo scoperto, senza evitare, né escludere chi non si addomestica, vedendo nell’altro un’opportunità di ricchezza e non un nemico che giunga a togliere qualcosa. Ma quello che rende grande un team è l’ascolto. In un mondo dove le voci si accavallano, dove tutti strillano e impongono i loro pareri, dove sentirsi onnipotenti è il minimo, ascoltare è l’unica vera azione che ci resta. L’ascolto è capire, cercare risposte, vagliare ipotesi, dare opportunità agli altri, concertare. Nel gruppo l’altro assume un valore rilevante così come il vero soggetto è il noi che diventa più importante dell’io, dove le voci di tutti formano un nuovo giudizio. Un gruppo va oltre la somma di tutti i componenti e non risponde più all’addizione dei singoli, ma crea nuove aspettative. Fare gruppo oggi è indispensabile, a tutti i livelli, perché da soli non si va da nessuna parte, così come nella vita.
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