di Filomena Baratto
Vico Equense - Ce n’era uno nei campi, vicino a un paletto che fungeva da steccato. Una volta mi sono fatta male: il ferro affilato mi è entrato nella gamba e mi ha lasciato la ruggin. Solo dopo ho saputo che bisognava fare l’antitetanica. E pensare che sono rimasta per un po’ senza nemmeno disinfettarmi. Quel filo l’ho visto di nuovo sui libri di scuola, in un’immagine di guerra e mi sono ricordata della volta che mi ero fatta male. Ho collegato la guerra al dolore della mia gamba sanguinante. Quel giorno una vicina mi ha spiegato che la guerra è roba per matti, che quando i soldati sono passati di là, hanno fatto uno scempio. Poi le ho chiesto a cosa servisse quel filo spinato visto che avevano le armi, lei mi ha risposto che un filo serve sempre: a prendere tempo, a lasciare ferite, a far desistere dall’oltrepassare la linea. Del suo discorso mi rimase scolpita l’ultima parte“ a desistere dall’oltrepassare la linea”. Poi è stata la volta di un’immagine di filo spinato lungo una ferrovia. Era attorcigliato, grasso e gonfio di ruggine con punte aguzze e ho pensato alle intenzioni di chi lo aveva disposto li, per non “oltrepassare la linea”. Un giorno ho scoperto, per caso, in un emporio, che di filo ce n’era ancora oggi e si poteva pure comprarlo. Mi sono scandalizzata quando è stato preso dai miei per recintare un cancello e mettere in difficoltà i malviventi. Quel filo mi perseguitava. Una volta, a scuola mi è stato chiesto di disegnarlo e mentre lo rendevo più in rilievo con le punte ben in evidenza, è stato come pungermi di nuovo e vedere la gamba sanguinante.
Ne ho visti in seguito sui cigli delle strade, ammassati, nei sentieri, nei prati, come note di un passato ancora vivo. Segno che la guerra non solo aveva lasciato confini, ma che non era mai finita. Una volta per un viottolo, un signore lo tagliava per proteggere una sua coltura e si lamentava che prima erano gli uccelli a far paura, oggi i ladri e notavo con quant’ arte lo disponeva e lo avvinghiava per rendere difficile il passaggio di un solo piede nel suo terreno. Mi chiedevo cosa sarebbe successo, tutto sommato, se poi il viandante avesse invaso il suolo. Tutt’al più avrebbe preso un frutto, un’insalata, del prezzemolo. Si poteva mettere un cartello con su scritto: ”Fate con cura, abbiate la bontà di non sradicare le piante, se proprio non resistete alla tentazione di portarvi via qualcosa”. Questo è quanto pensavo io mentre lui arrotolava il filo e lo disponeva sul bordo. Il fatto è che a chiuderci in un recinto siamo poi obbligati a lasciare fuori tante cose. Pensavo a quanto fossero tristi tutte quelle persone abituate a recintare per non aver giocato da piccoli, altrimenti avrebbero imparato a stare insieme e a non lasciare nessuno fuori. Non avranno mai saputo dei nostri cortili segnati col gessetto bianco per giocare alla settimana, quando volavano palloni e palle per “avvelenarci”, per discutere con un amico che non stava alle regole, con un altro che andavamo a scovare per farlo giocare e tutti insieme passavamo il tempo a vivere in compagnia. Pensavo che anche quelli di Auschwitz, sì, i cattivi, sono stati più poveri dei deportati, avranno fatto giochi “chiusi” sin da piccoli e avranno imparato a recintare e lasciare fuori chi non ce la faceva o quelli a cui non piaceva il loro atteggiamento. Il vero gioco è quello di tutti insieme, sudati a correre e a sbucciarsi fino a sanguinare ma non per il filo spinato arrugginito, pericolo per il tetano. Nel gioco si impara a resistere, a condividere, ad aspettare, ad aiutare, a collaborare, perché il gioco vero è quando partecipano tutti, senza esclusioni. Purtroppo il filo spinato vive. L’emporio di una volta lo vende ancora, ed è tragico vederlo nelle immagini di luoghi dal mondo dove si vedono cordoli che invece di essere di solidarietà, costruiscono intorno il gelo o il deserto. Se di un filo abbiamo bisogno è quello per legarci, l’unico antidoto per non arrugginirci e morire di tetano. E se un vicino sbircia nel nostro orto, non aspettiamo che sradichi qualcosa, preveniamolo offrendogli un frutto del nostro lavoro e fargli scoppiare la voglia di prepararsene uno da solo. Collaborare vale più che scacciare ed erigere per difendere i nostri confini.
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