Dopo la parentesi natalizia, conviene approfondire le ragioni di fondo che hanno spinto il premier Mario Draghi, con grande e amara sorpresa per chi nutre, e non da ora, stima e alta considerazione per la sua persona, per la sua competenza e per la sua autorevolezza, universalmente riconosciute, a rompere una proverbiale, nonché ammirevole, riservatezza, dopo i frastuoni contiani, inanellando una serie di considerazioni politico-istituzionali del tutto erronee e frettolose. A partire dalla sorprendente e indimostrata premessa sulla “missione compiuta“. Non basta aver posto delle discrete fondamenta, peraltro ancora in fieri, per dichiarare che l’edificio delle riforme strutturali, della sicurezza sanitaria e della ripresa economica del nostro paese, sia giá pronto per la fase attuativa e produttiva di concreta efficacia. Chiunque abbia una solida esperienza di alta amministrazione pubblica, al centro e in periferia, e conosca le enormi difficoltà burocratiche nel tradurre una giungla di norme e di regolamenti in fatti operativi, incidenti sulla vita quotidiana dei cittadini e delle imprese, sa che necessita, per la mole di lavoro ancora da definire, una guida ferma, consapevole e responsabile dell’esecutivo almeno per un quinquennio. Fino al 2026! Questo arco temporale vale sia per le riforme che per il rientro dalla pandemia, tornata virulenta e pericolosa, nonché per il Pnrr e per le loro reciproche interconnessioni. Missione appena iniziata, dunque, tutt’altro che compiuta! Ciò premesso, del tutto inoppugnabile, anche l’avverbio “indipendentemente“, a riguardo della guida futura del governo, appare fuori luogo, al limite del provocatorio, non potendosi neppure ipotizzare, stante la mitica e mitizzata razionalità e prudenza espressiva della personalità, che possa trattarsi di una “voce dal sen fuggita“.
Quindi, scomodando Orazio, nell’Arte poetica: nescit vox missa reverti (la parola detta non sa tornare indietro). Infine, l’argomentare di Draghi sulle immediate prospettive politico-istituzionali (Quirinale e una continuità delegata a Palazzo Chigi!) presupporrebbe una totale, convinta e concertata condivisione delle forze politiche della cosiddetta maggioranza di unità nazionale, condivisione mai esistita, tuttora inesistente e del tutto imprevedibile, specie nella prospettiva elettorale, auspicata dal premier per la scadenza naturale della legislatura, nel 2023. Nessuno meglio di Draghi, al di là degli elogi strumentali e di rito, ha potuto constatare quanto sia stata e sia difficile la coabitazione tra le componenti della maggioranza e come esse spesso subiscano, con insofferenza, le decisioni del premier. Perché mai, allora, le ha messe, per così dire “graziosamente“, con le spalle al muro, scontando, imprudentemente, a causa della loro crisi e inadeguatezza a governare, un’ulteriore soggiacenza al Quirinale e a Palazzo Chigi, magari per interposta persona, un simil-Draghi? Perché mai alimentare una confusione, di cui non si sentiva la necessità e che ha il sapore di un aut aut ai partiti e agli eletti in Parlamento? Soltanto le prossime settimane potranno aiutare a capire il perché della rottura di un riserbo che avrebbe meglio aiutato a conseguire un disegno, magari nutrito nel silenzio, ma ora svelato, in modo scompaginato e intempestivo, ignorando la storia di tutte le elezioni presidenziali, caratterizzate, in tempi politicamente meno precari e con gruppi parlamentari disciplinati e sotto controllo, da convergenze, rimaste celate fino all’ultimo minuto. A meno che questo gesto di rottura, per niente pacificante, sia stato prodotto da una ingenuità politica oppure da un eccesso di autoreferenzialità (il semi-presidenzialismo, di fatto, evocato da Giorgetti!), o, peggio ancora, da una stanchezza del ruolo, un gettare indirettamente la spugna. Nessuna delle tre ipotesi, comunque, renderebbe giustizia alla statura del premier, servitore delle istituzioni, anche da nonno. Il mistero, quindi, permane! Si spera che presto, molto presto, se ne venga a capo.
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