sabato 12 gennaio 2019

Siamo tutti emigranti

di Filomena Baratto

Vico Equense - Le migrazioni sono ormai un fenomeno geografico e storico ben conosciuto per i fatti di cronaca accaduti in questi anni e come storia personale di molti di noi. Sono sempre avvenute dal sud verso il nord, di qualsiasi luogo della terra si parli, vista anche come un movimento di persone verso quelle terre arricchitesi nei secoli a loro spese. Questi popoli da colonizzati, spinti dalle guerre e dalla fame, si riversano nei luoghi dei loro colonizzatori, quasi a rimarcare le responsabilità da questi avute nel corso della storia. Le migrazioni hanno a che fare col ricominciare, col rimettersi in discussione, del tutto per tutto, a volte un andare verso l’ignoto. Le conosciamo per vederle arrivare dal mare, da terra, come unica scelta, messa in atto da quell’istinto di conservazione per la vita. Il cambiamento, nell’abbandonare il ventre di appartenenza, produce amarezza, dolore, ma mai distacco completo. L’ho visto tante volte negli occhi di chi conosco: mia cugina, per esempio, che dall’Australia è venuta qui per la prima volta, da quando era bambina, qualche anno fa. L’ho letto nei suoi occhi quando mangiava il gelato, la pizza, passeggiava per le strade o ammirava il merletto verde che addobba la costa quando la si guarda dal mare. Lo si leggeva negli occhi quando si sentiva protetta da noi, con un calore intorno mai avuto prima. Guardare e chiedersi il motivo di vivere altrove e non ci sono risposte o forse non ha senso rispondere per non perdere i momenti regalati dal breve ritorno.


L’ho vista prima di lei negli occhi di sua madre per lo stesso destino. L’ho vista negli occhi di chi parte per un posto di lavoro lontano e deve rinunciare ai suoi amici, ai suoi cari, al suo sole, al suo mare e fa la pendolare e, pur di non recidere un cordone lungo una vita, si accontenta di partire ogni volta. L’ho letto negli occhi di persone, partite per l’America, per fare “fortuna”, come si diceva allora, senza sapere che la fortuna era avere una famiglia intorno. Al ritorno, nei loro occhi, la gioia di mettere di nuovo piede sul suolo materno, uno sguardo di chi vuol essere forte ma non ce la fa per comprendere che meglio della tua terra non c’è nulla. Si trova negli occhi di tutti quelli che vanno via, così come questa terra porta i segni anche di chi è approdato qui venuto da lontano. Non è questione di ricchezza e di fortuna, né di bellezza naturale, ma di amore per il posto che ti ha allevato, dove l’aria conosce il tuo codice genetico, dove gli alberi sembrano respirino con il battito del tuo cuore e dove anche le cose che proprio non vanno, vorresti modificarle col gli occhi e ti prometti di mettercela tutta per migliorare. Migrare è una realtà che avviene per tante motivazioni e, anche quelle che portano benessere e agi, tutte sanno di nostalgia, di malinconia per la consapevolezza di perdere qualcosa che non si può più riavere. Lo vedo nei miei figli che, se potessero, starebbero nella loro casa spaziosa qui, nata per accoglierli tutti e invece è diventata solo troppo grande per chi resta. E si fa finta che va bene così, che è per il loro bene, che è la vita, che i giovani devono andare dove sono chiamati. Ma non è vero! Le ragioni trovate rispondono solo a fattori economici, di benessere, le ragioni che non si dicono hanno a che fare con altro: con la mancanza, con la perdita di una quotidianità che non ti appartiene più, col perdere il ruolo e il suo esercizio e ti colmi di frasi fatte e luoghi comuni che forse non pensi ma che rafforzi e con cui ti costruisci una corazza. La malinconia non è solo di chi parte ma anche di chi va via e non può cambiare il corso della vita e, l’unica cosa che può fare, è aspettare. La migrazione la portiamo negli occhi quasi tutti: per essere andati via o per vedere andare via, due condizioni non dissimili come stato d’animo. Tutti abbiamo dentro una partenza, un andare lontano, un vivere di telepatia, di telefoni, di tecnologia. E allora cominci a fare i conti di quante volte ci si incontrerà, di quanto bisogna aspettare, di come ci cambierà il tempo e se ne avremo per vedere tutto quello che desideriamo. Conosco migranti che portano negli occhi la loro terra come la coperta di Linus, nel marocchino ai bordi della strada o nel bambino colombiano a scuola, nella colf ucraina o nel professore africano, in tutti coloro venuti qui o andati altrove rispetto ai quali siamo più fortunati proprio per avere a portata di mano terra, affetti e lavoro nel luogo di nascita. Migrare cambia le persone, le rende temprate e forti, cittadini del mondo e del progresso, del benessere e della modernità, quando avviene per migliorarsi e riuscire a realizzare i propri sogni. Migrare può avvenire anche come irreversibile processo nel caso di chi parte e non sa dove andrà, di chi vive di stenti, di paure e disadattamento. In tutti coloro che vivono questo fenomeno c’è nel proprio cuore una fiammella sempre accesa che li riconduce a casa, una casa dalle forme di ricordi, di profumi, di sapori che si portano dentro, che ci danno la forza di non spezzare il legame con la nostra terra, con il nostro pezzo di mondo regalatoci appena siamo nati. Oggi la vera ricchezza è restare nel luogo natio e viverci bene, accerchiati da familiari e affetti e avere quello di cui vivere. Vivere il proprio luogo come la propria madre, poiché vale molto più la serenità di non perdere quello che si ha, piuttosto che acquistare quello che non si conosce e che potrebbe farci perdere anche il conosciuto.

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