lunedì 26 dicembre 2016

I migranti e l’agonia dell’Europa

Fonte: Biagio de Giovanni da Il Mattino

L’Europa non ha più un’idea di se stessa, e forse questo è l’aspetto più grave della sua crisi. Dinanzi ai drammi che sta vivendo il mondo, e l’Europa in esso, dalla guerra al terrore, dall’ondata degli immigrati alle crisi sociali, dire questo può apparire l’ubbia di un filosofo, ma a ben guardare non è così. L’Europa ha avuto sempre un’idea di sé, e anche le fasi più tragiche della sua storia e le sue stesse divisioni sono scandite da uno sforzo di consapevolezza e da una spesso tragica lotta di idee. E sempre da una idea, val la pena ora soprattutto ricordarlo, è nato il processo di integrazione nel secondo dopoguerra: l’Europa era in macerie, ma ha avuto ancora la forza di pensare se stessa in un processo di unità. Il corso della sua civiltà, che è stata centro del mondo, è complicato, difficile a riassumersi, ma forse si può dire che la sua storia è stata sempre in tensione tra una idea di libertà e una idea di potenza, ha sempre provato a pensare se stessa in relazione al mondo, anche quando il realizzarsi oltre i propri confini significava violenza e prova di forza e, certo, questa violenza si attuava pure entro i suoi stessi confini, nella lotta tra diverse visioni del mondo e del destino della storia. Infine è giunto il riconoscimento reciproco tra tutti, il grido potente del mai più guerra tra i popoli europei, e dentro questo grido, che concludeva secoli di lotte, c’era pure l’idea che stava nascendo una Europa capace di guardare al mondo con uno sguardo fatto soprattutto del reciproco riconoscimento in una comune umanità, e di una formazione, nel mondo, di una rule of law, un ordinamento concreto dei rapporti tra le nazioni capace di disarmare un po’ gli animi e offrire, se così si può dire, un buon esempio, un buon modello di pacificazione.
 
Tutto vero, in un racconto che possiamo tornare a farci, ma tutto in una difficoltà che forse non ha precedenti a partire dalla data di inizio di questo processo. Come se l’Europa, di fronte a un mondo in crisi, di fronte all’irruzione di un disordine imprevisto dai cantori euforici della globalizzazione, si fosse d’improvviso ritirata nei propri confini, e, siccome questi suoi confini esterni sono incerti, ogni Stato partecipe del progetto comune ha incominciato a pensare guardando soprattutto dentro di sé, con accenti diversi, ma di sicuro non più tra loro solidali. Ma una idea, nella storia, non vive campata per aria, non sta per sé, in un luogo separato dalla storia concreta, e, se questo accade, essa a poco a poco deperisce e la storia stessa, di un continente in questo caso, può prendere tutta un’altra direzione. Prendiamo il tema cruciale dell’immigrazione. Non ne sottovalutiamo l’estrema gravità, dato che il fondo da cui sporge non possiede nessun limite dato e insuperabile, e pezzi concreti e vasti di umanità possono mettersi in cammino per trasferirsi in un altro spazio del mondo di cui hanno sentito raccontare meraviglie, e che effettivamente, se paragonato a quello che gira fuori di lui, «meraviglioso» lo è. Ma lo sguardo interno di questo mondo non la pensa così anche perché a sua volta avvinghiato a una crisi. È uno sguardo contrastato, diviso, sul problema forse cruciale del tempo che viene. Che fare di fronte a esso? Come regolarsi man mano che il fenomeno si amplia? Difendere il confine che cela una identità oppure vedere in quella umanità disperata una domanda che non può essere del tutto elusa e che addirittura può diventare risorsa? Ma «l’altro» che arriva può essere anche un nemico che si pianta nella tua terra, è avvenuto, può sempre avvenire. E poi: che significa integrazione quando essa tocca un’altra cultura, un altro modo di essere nel mondo, nella società? Che cosa deve prevalere, la sua libertà o il nostro modo di vivere la libertà? Risposte possibili, magari facili se si resta sul generico, ma che diventano pungenti quando si tratta di organizzare i corpi spesso nudi e desolati che chiedono asilo. E la sicurezza? Che cosa ne è di questo tema? E che ne è dello spazio aperto che si è voluto sostituire alla rigidezza dei confini? E che ha aperto l’Europa agli europei. A queste grandi domande e a tante altre che si affollano, l’Europa come tale non sa rispondere. Ha moti di generosità e di apertura e moti di chiusura anche arcigni. Qui non è assolutamente in discussione il merito del problema, quale risposta si debba effettivamente apprestare. Qui in discussione è il fatto che sul tema l’Europa non c’è più, è scomparsa dalla scena; c’è che il suo modello non risponde, non si sa più che cosa sia, o debba essere, o voglia essere. L’idea che la ha formata resta sullo sfondo, come un contenitore sempre più vuoto, sempre più inadatto a rispondere nel merito delle grandi e vere contraddizioni che si aprono, e lo sguardo sul mondo torna a ritirarsi in se stesso, e si creano, all’interno di Europa, livelli che sembrano non più destinati a incontrarsi, fatti di reciproca indifferenza se non di ostilità. Si avverte, insomma, che l’idea originaria non basta più. Sì, è vero, la pace si è realizzata tra i popoli d’Europa e tanto altro poi si è fatto. Ma il senso di soddisfazione che è giustamente nato da questo stato di cose, ha come neutralizzato la forza della viva energia politica, ha lasciato immaginare un mondo in cui non fosse più necessaria la decisione politica, un mondo tenuto insieme da altri poteri sempre più avvolti nel puro calcolo tecnico delle compatibilità. Poi i mondi vitali tornano a urtare dentro e fuori le frontiere, diventate di per sé incerte, e tutto cambia. La coscienza magari si scuote, ma nessuno, nemmeno lei, sa che farsene di questo suo scotimento. Spesso resta una pura testimonianza umanitaria, quando il tema è: quale decisione per questo mondo scisso? Ma è la scissione che non si vuole avvertire, giacché essa chiama unità e di unità non si vuol più parlare.

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