domenica 27 ottobre 2019

Ciao Maresciallo

Umberto Penna
di Filomena Baratto

Vico Equense - La prima volta che lo vidi al parcheggio, mi parve di conoscerlo. Ho una memoria visiva e sono molto fisionomista, ma non ricordai dove. Il suo sorriso, gli occhi vivaci e quel modo lento di dare il resto o staccare il biglietto, gli conferivano un aspetto tranquillo, a modo ed educato. Quando arrivavo, scendeva dalla guardiola per indicarmi dove fermarmi. Dopo aver parcheggiato mi faceva un bel po’ di domande. Nel mentre chiedeva, mi veniva in mente zia Giovannina quando ero bambina che mi faceva tante domande quando andavo a farle visita in salumeria. Non la smetteva più, ma io rispondevo a tutto quello che mi chiedeva, come al maresciallo. Non ci mise molto a capire che sapevo guidare, che ero rapida nelle manovre, e così non mi veniva più incontro come all’inizio, mi aspettava all’interno della roulotte guardando mentre mi sistemavo accanto alle altre auto. A volte scendeva a controllare se rientravo nelle strisce, se raggiungevo il parapetto, se ce la facevo a scendere dall’auto. Era molto loquace, insistente, un po’ invadente, ma sapeva farsi perdonare tutto con quel sorriso solare e quel darsi le risposte da solo quando capiva di essere andato oltre. Notava quante volte andavo al parcheggio, l’umore, se cambiavo auto, i libri che avevo con me. Una volta mi ha detto che aveva il fiuto dell’investigatore e io gli risposi che non ero da meno, che anch’io sono una Sherlock Holmes. Ridemmo come a prenderci in giro.
 
Mi raccontava del suo lavoro, di qualche episodio in particolare. Era capace di un discorso finito nei pochi minuti in cui dava il resto e si destreggiava con la cassa. Poi un giorno spostando la mia auto sentì un rumore cui avevo fatto caso anch’io e mi fece tutta una lezione di meccanica. A casa ne nacque un caso. L’auto fu portata dal meccanico e dopo un laborioso lavoro questi me la diede ancora col rumore. “No, mi dispiace, non è un buon meccanico”, disse quando sentì ancora il rumore. Fortunatamente come per incantesimo da quel giorno il rumore cessò. In seguito ho saputo del suo “contranome”, realtà tutta nostrana. Il suo melannurca mi è piaciuto, per il colorito e la rotondità del viso e non so se per altri motivi. A volte la sua presenza si alternava e, quando non c’era, mi salutava dalla finestra di casa. Quando non l’ho visto più ho arguito fosse successo qualcosa, ma non di grave, l’ho presa come una momentanea assenza. Intanto significativo il fatto che non lo vedessi nemmeno dietro i vetri della sua finestra. Mi è dispiaciuto molto. Era generoso, paterno, attento, sempre pronto a intervenire per risolvere ogni cosa, anche quello che agli altri sembrava insormontabile. Ricordo il nostro primo incontro. Stavo parcheggiando sulle strisce blu in curva, con un’impegnativa manovra e dopo aver sistemato l’auto ne ebbi per molto alla colonnina dei biglietti. Mi vide dal cancelletto di casa sua e mi disse che dovevo toglierla di là e portarla più giù. Fu così che mi presentò il suo parcheggio. A volte, nei pochi minuti a disposizione faceva delle domande o mi raccontava qualche fatto, un suo ricordo. Mi raccomandava mille cose, mi parlava del traffico, delle feste, degli eventi. Mi chiedeva cosa facevo, ma soprattutto quando c’era da uscire da un posto che richiedeva manovre difficili, lui mi guardava dal suo posticino ridendo: sapeva che non c’era bisogno di alcun intervento da parte sua. A volte camminava un po’ claudicante tra le auto in sosta e faceva spostamenti vari per sistemare le auto mentre io lo attendevo alla roulotte. Quando mi vedeva da lontano lì ad aspettarlo, correva trascinandosi la gamba, un po’ affannato. In quei momenti sembrava una persona di famiglia, come se fosse stato mio padre o mio nonno che mi vanivano incontro. Sarà difficile accettare che non sarà più lì affacciato alla guardiola o alla finestra di casa o sulle scale della sua abitazione dove spesso potava, sistemava vasi, sempre intento in qualche lavoretto. A pensarci bene quella volta che mi chiamò dalla finestra salutandomi con il braccio teso in alto, era forse per farmi capire che non stava bene. Fu l’ultima volta che l’ho visto. Motivavo la sua assenza al parcheggio al freddo serale o al riposo pomeridiano, alla stanchezza di stare lì tante ore a spostare le auto. Niente lasciava presagire che fosse vicina la sua fine. Quando andrò al parcheggio ora, mi sembrerà di vederlo seduto ancora lì ad attendere mentre faccio manovra e a prepararsi la domanda di turno, ricordandomi le nostre battute e gli argomenti come il tempo, le auto, il week end, i bagni... E’ strano come persone incontrate per poche ore e di cui non sappiamo niente, diventino simboli di vita, di forza ed energia positiva.

Nessun commento: