martedì 22 agosto 2023

Storie di femminicidi. Perché Anna non è stata protetta

di Elvira Reale Il Corriere del Mezzogiorno

Il femminicidio di Anna Scala fa saltare il banco, e rien ne va plus nello scarica barile delle responsabilità praticato dalle istituzioni. Un gioco che ha avuto l'effetto di demolire la credibilità delle donne che denunciano la violenza subita e la loro vittimizzazione secondaria, ben documentata dalla Commissione d'inchiesta sul femminicidio della scorsa legislatura. Il caso di Anna manda in soffitta le tre frasi che imperversano nelle interviste a magistrati ed esperti di varie professioni: Donne! Uno, andate a denunciare al primo schiaffo; due, non accettate gli «ultimi» appuntamenti e, tre, guardate il vostro partner geloso come una persona da curare, affetto da gelosia patologica. Anna Scala smentisce questi argomenti stereotipati che pretendono di rendere il femminicidio meno ingiustificabile. Anna, cercando una risposta alle sue esigenze di protezione, aveva fatto due denunce, entrambe inevase. Anna non era andata a un «ultimo appuntamento». Prudente e consapevole, in attesa dell'aiuto invocato ha lasciato la sua casa e si è rifugiata dalla madre. Anna è stata uccisa dall'ex-partner, già denunciato per lo stalking post-separativo e che non accettava la sua decisione, la sua autonomia.E questo è il fattore centrale del rischio di letalità, riconosciuto internazionalmente. Anna ha fatto tutto ciò che si suggerisce, idealmente, a una donna vittima di violenza.

 

La responsabilità della sua morte, dunque, è oltre che del suo assassino delle istituzioni che non l'hanno ascoltata né protetta, sottovalutando le sue denunce e le sue paure e trascurando una corretta analisi del rischio. Non è quindi accettabile l'autodifesa, della magistratura come di altre istituzioni, dietro il tema dell'imprevedibilità dell'evento. Il re è nudo. Sappiamo tutti, come sostiene da anni l'associazione Protocollo Napoli che segue i percorsi istituzionali mettendo in evidenza gli aspetti di revittimizzazione, che la violenza è un processo e non un fenomeno puntiforme, per cui anche le buone pratiche di contrasto si sono costruite e si costruiscono nel tempo. Le norme ci sono, infatti, ma non sono applicate. Lo dicono anche alcuni magistrati, consapevoli degli stereotipi e pregiudizi che pesano su operatori e operatrici della giustizia; lo ha detto la ex presidente della Commissione femminicidio, Valente, con i dati dell'inchiesta svolta. Ma dobbiamo constatare che i pregiudizi sono ancora forti, nei tribunali e ovunque. E non basta la formazione «teorica», occorre un salto di qualità nella lotta al pregiudizio, un intervento più consapevole almeno in ambito giudiziario, a partire dal Csm. Gabriella Ferrari Bravo ha scritto qui di un'altra «Anna», nel cui percorso «dimenticato» si stagliava il suggerimento di un altro rappresentante dello Stato, il poliziotto che le diceva: «attenta alla denuncia, potrebbero toglierti tuo figlio». E infatti, ciò che ha permesso a Anna Scala di reagire e denunciare è stato il non avere figli con l'ex partner. La presidente del tribunale di Napoli, in un'intervista, si è riferita agli accordi con l'ex-presidente della commissione femminicidio per costituire nuovi spazi di riconoscimento della vittimizzazione secondaria da parte delle istituzioni. Questa è l'occasione buona per andare avanti, con le associazioni di donne, i centri anti-violenza e le esperte nel contrasto alla violenza sulle donne, per superare stereotipi e pregiudizi di cui la strada dei femminicidi è lastricata.

Nessun commento: