sabato 6 maggio 2017

C’era una volta…

di Filomena Baratto 

Vico Equense - …Un giovane che amava tanto la sua donna, le sue bambine, la vita insieme…Era un gran lavoratore, serio, attento e scrupoloso. Troppo bello, sarebbe una storia che non necessiterebbe nemmeno di essere raccontata. E allora? Cosa si nasconde dietro questo bene? L’alcool, sì l’alcool, il giovane beveva ma non un bicchierino, beveva oltre il gomito, oltre il possibile. Di domenica, dopo pranzo, con la famigliola al seguito, si fermava per strada, mentre saliva verso il paese dei genitori,le lasciava in macchina e scendeva per dirigersi alla bettola dove poteva buttare giù un bicchiere. Non chiedeva, né voleva sapere se poteva o meno fermarsi, sapeva solo che aveva necessità di bere. Bere per lui era tutto. Se era arrabbiato, se veniva frainteso, se mancavano soldi, se era disperato, deluso, triste, abbattuto, la soluzione la trovava nel vino. Un bel bicchiere di rosso alla cantina con gli amici, lo tirava su. Ma gli amici non gliene davano un bicchiere solo, bevevano fino a ubriacarsi, a puzzare di vino mille miglia distante. La famigliola aspettava sempre in macchina, al buio, magari anche al freddo, che il padre tornasse per andare a casa. E così, conoscendo le sue abitudini, che non sarebbe uscito sobrio da lì dentro, che avrebbe cercato il pelo nell’uovo per cominciare a litigare, attendevano con la morte nel cuore.
 
La più piccola aveva tre anni e col ciuccio in bocca aspettava il papà guardando la porta della cantina, là dove lo aveva visto entrare. E chiedeva alla madre: ”Dov’è andato papà? Perché non torna?” La mamma le rispondeva che sarebbe tornato presto, ma quando usciva di lì, a notte fonda, lei dormiva tra le sue braccia e nel sonno sentiva battere forte il cuore della madre. Quando finalmente, lui rientrava in macchina, più che ubriaco, innestava la marcia e partiva. Slittava sull’asfalto per l’accelerazione e correva senza saperne il motivo, solo per la smania di dare sfogo alla sbornia. Le strade erano vuote, ma non ampie, a tratti sembrava che toccasse i muri a destra e a sinistra. Lei, con una scusa, scendeva dai suoi, non poteva tornare a casa rischiando di essere uccisa. Lui la picchiava, non uno schiaffo, ma dieci, venti… Una volta la pestò nel buio facendola finire all’ospedale. Quella volta fu fortunata, dovette solo disintossicarsi, ormai le paure erano il suo pane quotidiano. Cominciò così a non uscire più in macchina con lui, aveva terrore che potesse succedere qualcosa a lei e alle bambine. Allora lui tornava a casa già ubriaco. Accadeva quando tardava a rientrare e lei, presagendo le condizioni in cui sarebbe arrivato, chiudeva la porta con una fune, in modo che anche inserendo la chiave nella toppa, la porta non si aprisse. Allora, chiuso fuori dalla porta, era costretto a dormire in macchina ma prima di rassegnarsi a passare la notte al freddo e alla brina mattutina, la chiamava dal cortile, la pregava, la scongiurava di aprirgli, che non le avrebbe fatto niente. Lei ascoltava i suoi lamenti e gli apriva non credendo a quello che poi era capace di farle: schiaffi, pugni, calci, tirate di capelli. Nemmeno le bambine riuscivano a bloccare quella furia e a volte le prendevano anche loro. Malgrado tutto il male che le faceva, lo portò in un centro per disintossicarsi, ma fu troppo tardi, il suo fegato non c’era più e una cirrosi epatica lo portò alla morte in poco tempo. Anche lei non ce l’ha fatta. Era un’ammalata perenne e il suo fisico non ha retto. Quelle notti, quel buio, quella puzza di alcool sono rimasti ancora oggi nei ricordi di chi quelle scene non è riuscito a disfarsene. L’alcool è una schiavitù, come la droga, come l’usura, come il gioco, è un mostro che non perdona. Si comincia per caso, per scherzo, per abitudine e anche per esempio. Queste schiavitù un po’ si ereditano, si apprendono dagli altri, basta guardarli e volerli emulare. Può essere il padre, lo zio, l’amico, il nonno…Sono schiavitù che assumono le caratteristiche di “cose da grandi” come se il mondo dei grandi fosse irraggiungibile e in questo modo risultasse più vicino. L’alcool distrugge se stessi e gli altri, senza via di scampo e, una volta intrapresa la strada, è molto difficile tornare indietro. E’ quasi a senso unico. Chi vive con un alcolizzato ne sa qualcosa, la sua vita è un inferno. Dall’alcool non si esce da soli, si cade e si ricade e ci si deve alzare mille volte per superare il mostro. Chi vive con un alcoolista, deve aiutarlo ma non deve annientare la sua vita. E’ doveroso curarsi per non lasciare che i giovani seguano l’esempio e possano diventare bevitori e potenziali alcolisti. L’alcool cambia la geografia della nostra mente, le reazioni chimiche del nostro corpo, degenera gli organi e abbassa le difese. L’alcool uccide come la droga e talvolta vanno di pari passo. La storia raccontata non è una fiaba, ma una storia vera e come questa ce ne saranno tantissime altre. Se ci si trova in una situazione analoga, c’è solo da chiedere aiuto e non avere remore, né paure, ma agire. E non è un problema solo di persone anziane. I giovani eccedono per l’ebbrezza delle emozioni, gli anziani forse per dimenticare. In entrambi i casi si chiede all’alcool quello che invece non può darci: una rivoluzione dei nostri sentimenti, un oblio che invece dura poco, insignificante per poi farci ammalare e crollare. In questi casi affidarsi a persone che possono aiutarci, che sanno cosa fare, ad esperti, ai centri preposti ad ascoltare ed aiutare, per non crollare e potercela fare. E’ un percorso difficile, ma non impossibile.

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