Qualunque sia l’esito del voto, oggi finisce l’era di Antonio Bassolino. Sedici anni filati, tra Palazzo San Giacomo e Palazzo Santa Lucia. Un record assoluto di continuità. Un fenomeno storico. Si dirà che la sua leadership resta a dimensione locale, ma la cosa è ben più complicata. In realtà, Bassolino è personaggio singolare. Non è stato un amministratore puro, perché la sua vocazione politica lo ha costantemente portato a tessere le trame della politica, proiettandolo oltre i confini del territorio. Né è stato un politico puro, perché sedici anni di incarichi amministrativi l’hanno ovviamente costretto a imparare un altro mestiere. E neppure può definirsi un leader nazionale, perché mai, a parte la parentesi nel governo dalemiano, è davvero entrato nel Grande Gioco dei palazzi romani. Del resto, il suo partito l’ha sempre tenuto a distanza: prima per fastidio nei confronti della stella luminosa, poi per l’imbarazzo di fronte all’idolo infranto. In una parola, la traiettoria di Bassolino è anfibia, al confine tra ruoli molto diversi. Ed è fin troppo facile osservare che questa collocazione bifronte (che fosse per caratteriale voracità o per spirito di servizio verso la sinistra) non gli ha giovato. Sul piano personale, il governatore chiude in rosso la stagione vesuviana. Non ha fatto il salto fino a Roma e lascia Napoli avendo consumato un prestigio che a un certo punto fu plebiscitario. Prima o poi, bisognerà capire le ragioni del suo ciclo, visto che non parliamo di un uomo senza qualità. Di quella storia, al momento, basta accennare a tre buchi neri. Il primo è stato l’incapacità di gestire il rapporto con i partiti. Significativamente, se il suo apogeo coincise con gli anni della desertificazione politica di Mani Pulite, i primi segni di crisi emersero già con la seconda sindacatura, quando alla solitudine carismatica si sostituì giocoforza la logica delle alleanze. E qui il sindaco dei miracoli svelò insospettabili inadeguatezze. Il secondo limite è stata la resa senza condizioni alle vischiosità amministrative. Bassolino non riuscì a utilizzare il proprio enorme consenso per imporre una riforma della macchina comunale e poi della macchina regionale. E alla fine scelse la strada della moltiplicazione di consulenti e competenze esterne, dando vita a una corte di uomini del Re, che spesso non sono stati all’altezza e che comunque non hanno scalfito i poteri delle burocrazie. In terzo luogo, per compensare le difficoltà con i partiti e per una tipica ideologia della sinistra, Bassolino imboccò precocemente la strada della spesa pubblica. Il cattivo utilizzo dei cospicui fondi europei è la grande macchia che il governatore lascia di sé alla storia. Oggi si volta pagina. E sarà opportuno che il vincitore delle urne rifletta con attenzione alla storia del leader che lascia il campo. In questa campagna elettorale, l’antibassolinismo è stato una sorta di passepartout. Ma chi gli succederà, più che genericamente antibassoliniano, avrà l’obbligo di affrontare i nodi che il governatore non ha saputo sciogliere e i perché delle defaillance di una lunga stagione. Essendo consapevole che addebitarle ai difetti del suo leader sarebbe ingenuo e forse ingeneroso. Le cose sono state più complesse e quel leader non ha soltanto difetti. (di Paolo Macry da il Corriere del Mezzogiorno)
domenica 28 marzo 2010
L’ultimo giorno del leader
Qualunque sia l’esito del voto, oggi finisce l’era di Antonio Bassolino. Sedici anni filati, tra Palazzo San Giacomo e Palazzo Santa Lucia. Un record assoluto di continuità. Un fenomeno storico. Si dirà che la sua leadership resta a dimensione locale, ma la cosa è ben più complicata. In realtà, Bassolino è personaggio singolare. Non è stato un amministratore puro, perché la sua vocazione politica lo ha costantemente portato a tessere le trame della politica, proiettandolo oltre i confini del territorio. Né è stato un politico puro, perché sedici anni di incarichi amministrativi l’hanno ovviamente costretto a imparare un altro mestiere. E neppure può definirsi un leader nazionale, perché mai, a parte la parentesi nel governo dalemiano, è davvero entrato nel Grande Gioco dei palazzi romani. Del resto, il suo partito l’ha sempre tenuto a distanza: prima per fastidio nei confronti della stella luminosa, poi per l’imbarazzo di fronte all’idolo infranto. In una parola, la traiettoria di Bassolino è anfibia, al confine tra ruoli molto diversi. Ed è fin troppo facile osservare che questa collocazione bifronte (che fosse per caratteriale voracità o per spirito di servizio verso la sinistra) non gli ha giovato. Sul piano personale, il governatore chiude in rosso la stagione vesuviana. Non ha fatto il salto fino a Roma e lascia Napoli avendo consumato un prestigio che a un certo punto fu plebiscitario. Prima o poi, bisognerà capire le ragioni del suo ciclo, visto che non parliamo di un uomo senza qualità. Di quella storia, al momento, basta accennare a tre buchi neri. Il primo è stato l’incapacità di gestire il rapporto con i partiti. Significativamente, se il suo apogeo coincise con gli anni della desertificazione politica di Mani Pulite, i primi segni di crisi emersero già con la seconda sindacatura, quando alla solitudine carismatica si sostituì giocoforza la logica delle alleanze. E qui il sindaco dei miracoli svelò insospettabili inadeguatezze. Il secondo limite è stata la resa senza condizioni alle vischiosità amministrative. Bassolino non riuscì a utilizzare il proprio enorme consenso per imporre una riforma della macchina comunale e poi della macchina regionale. E alla fine scelse la strada della moltiplicazione di consulenti e competenze esterne, dando vita a una corte di uomini del Re, che spesso non sono stati all’altezza e che comunque non hanno scalfito i poteri delle burocrazie. In terzo luogo, per compensare le difficoltà con i partiti e per una tipica ideologia della sinistra, Bassolino imboccò precocemente la strada della spesa pubblica. Il cattivo utilizzo dei cospicui fondi europei è la grande macchia che il governatore lascia di sé alla storia. Oggi si volta pagina. E sarà opportuno che il vincitore delle urne rifletta con attenzione alla storia del leader che lascia il campo. In questa campagna elettorale, l’antibassolinismo è stato una sorta di passepartout. Ma chi gli succederà, più che genericamente antibassoliniano, avrà l’obbligo di affrontare i nodi che il governatore non ha saputo sciogliere e i perché delle defaillance di una lunga stagione. Essendo consapevole che addebitarle ai difetti del suo leader sarebbe ingenuo e forse ingeneroso. Le cose sono state più complesse e quel leader non ha soltanto difetti. (di Paolo Macry da il Corriere del Mezzogiorno)
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento