domenica 28 marzo 2010
L’ultimo giorno del leader
Qualunque sia l’esito del voto, oggi finisce l’era di Antonio Bassolino. Sedici anni filati, tra Palazzo San Giacomo e Palazzo Santa Lucia. Un record assoluto di continuità. Un fenomeno storico. Si dirà che la sua leadership resta a dimensione locale, ma la cosa è ben più complicata. In realtà, Bassolino è personaggio singolare. Non è stato un amministratore puro, perché la sua vocazione politica lo ha costantemente portato a tessere le trame della politica, proiettandolo oltre i confini del territorio. Né è stato un politico puro, perché sedici anni di incarichi amministrativi l’hanno ovviamente costretto a imparare un altro mestiere. E neppure può definirsi un leader nazionale, perché mai, a parte la parentesi nel governo dalemiano, è davvero entrato nel Grande Gioco dei palazzi romani. Del resto, il suo partito l’ha sempre tenuto a distanza: prima per fastidio nei confronti della stella luminosa, poi per l’imbarazzo di fronte all’idolo infranto. In una parola, la traiettoria di Bassolino è anfibia, al confine tra ruoli molto diversi. Ed è fin troppo facile osservare che questa collocazione bifronte (che fosse per caratteriale voracità o per spirito di servizio verso la sinistra) non gli ha giovato. Sul piano personale, il governatore chiude in rosso la stagione vesuviana. Non ha fatto il salto fino a Roma e lascia Napoli avendo consumato un prestigio che a un certo punto fu plebiscitario. Prima o poi, bisognerà capire le ragioni del suo ciclo, visto che non parliamo di un uomo senza qualità. Di quella storia, al momento, basta accennare a tre buchi neri. Il primo è stato l’incapacità di gestire il rapporto con i partiti. Significativamente, se il suo apogeo coincise con gli anni della desertificazione politica di Mani Pulite, i primi segni di crisi emersero già con la seconda sindacatura, quando alla solitudine carismatica si sostituì giocoforza la logica delle alleanze. E qui il sindaco dei miracoli svelò insospettabili inadeguatezze. Il secondo limite è stata la resa senza condizioni alle vischiosità amministrative. Bassolino non riuscì a utilizzare il proprio enorme consenso per imporre una riforma della macchina comunale e poi della macchina regionale. E alla fine scelse la strada della moltiplicazione di consulenti e competenze esterne, dando vita a una corte di uomini del Re, che spesso non sono stati all’altezza e che comunque non hanno scalfito i poteri delle burocrazie. In terzo luogo, per compensare le difficoltà con i partiti e per una tipica ideologia della sinistra, Bassolino imboccò precocemente la strada della spesa pubblica. Il cattivo utilizzo dei cospicui fondi europei è la grande macchia che il governatore lascia di sé alla storia. Oggi si volta pagina. E sarà opportuno che il vincitore delle urne rifletta con attenzione alla storia del leader che lascia il campo. In questa campagna elettorale, l’antibassolinismo è stato una sorta di passepartout. Ma chi gli succederà, più che genericamente antibassoliniano, avrà l’obbligo di affrontare i nodi che il governatore non ha saputo sciogliere e i perché delle defaillance di una lunga stagione. Essendo consapevole che addebitarle ai difetti del suo leader sarebbe ingenuo e forse ingeneroso. Le cose sono state più complesse e quel leader non ha soltanto difetti. (di Paolo Macry da il Corriere del Mezzogiorno)
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