di Paolo Macry da Il Corriere del Mezzogiorno
Non sarà il professionismo dell'antimafia di Sciascia, ma contro la camorra s'è andata organizzando nel corso del tempo una grande macchina rituale, capace di riempire le piazze e di promuovere un'edificante identità cittadina. Senza però che la lotta al crimine faccia un solo passo avanti. Giorno dopo giorno, in fragile contrappunto allo stillicidio degli agguati e dei morti, si organizzano cortei, si celebrano esequie e commemorazioni, si ascoltano le dure omelie di parroci e cardinali. E intanto infuriano i talkshow. Fino alle ore piccole. Il punto è che la ritualità anticamorra sembra avere un solo obiettivo, espresso in genere attraverso semplici slogan: mantenere alta la coscienza civile, non abbassare la guardia, dare una risposta collettiva alla violenza. Il che, per quanto certamente commendevole, parte da un singolare presupposto: che la camorra possa essere sconfitta dalla mobilitazione popolare. Che siano i comuni cittadini a dover isolare materialmente e culturalmente le famiglie sanguinarie. Ma come? Sarebbe quanto meno ingenuo pensare che i cittadini si trasformino in volontari disarmati contro i mitra dei clan. Che vadano in massa a denunciare gli estorsori (con le conseguenze viste a Fuorigrotta).
Che abbiano la forza di chiudere in casa i figli-pusher o la voglia di spiegare loro le virtù dei banchi di scuola. Costruire una cultura civica che metta nell'angolo la cultura della sopraffazione? Più facile a dirsi che a farsi. La retorica dell'anticamorra propone un progetto pedagogico velleitario, contrappone semplicisticamente la Napoli degli onesti e la Napoli della mala, veicola messaggi autoreferenziali (noi non siamo camorristi). Quei riti, soprattutto, spostano il fuoco del problema, che è invece la cronica mancanza di Stato. Non, sia chiaro, lo Stato assistenziale che chiedevano a gran voce alcuni ambigui cortei alla Sanità, ma lo Stato cui spetta anche l'obbligo della repressione. Coscienza della legge, superamento dell'omertà, frequenza scolastica, opportunità di lavoro sono importanti, è ovvio. Ma hanno bisogno (a monte) di uno Stato che ingaggi una guerra senza quartiere al crimine, aumentando forze di polizia e intelligence, utilizzando semmai l'esercito, collocando presidi armati nelle aree più infiltrate dalle gang, allestendo processi rapidi, garantendo che le pene siano scontate. È lo Stato che può e deve fare tutto questo, non i comuni cittadini. Naturalmente, simili misure scatenerebbero stucchevoli dibattiti su diritti e garanzie. Orgogliose proteste contro la criminalizzazione della città. E tuttavia non c'è altra strada. Difficilmente, nella latitanza del governo, basterà un corteo di volonterosi a sconfiggere l'esercito camorrista.
Nessun commento:
Posta un commento