lunedì 10 maggio 2010

Neopomicinismo di ritorno

La discussione sul Bordello delle Due Sicilie (The Economist) e sulla Campania palla al piede del paese (Enrico Letta) ha messo brutalmente sul tappeto questioni imbarazzanti, ma cruciali, che in molti — a lungo, per cecità o per interesse — hanno preferito non vedere. Ciò che sta emergendo, all’indomani del licenziamento elettorale del centrosinistra, è una verità elementare. Letta la dice solo oggi, e comunque con coraggio, dato il suo ruolo nel Pd. Questo giornale la ripete da anni. La verità è che malauguratamente — dal 2000 al 2010 – Palazzo Santa Lucia ha dissipato la storica opportunità rappresentata dai fondi europei. Parliamo di molti miliardi. Mentre altrove, dall’Irlanda alla Germania e alla Spagna («praticamente ovunque», accusa Letta), se ne faceva una leva strategica per lo sviluppo, in Campania quei miliardi sono scomparsi nel nulla, inutilizzati per carenze amministrative, evaporati nelle clientele territoriali, distribuiti a pioggia fra centinaia di comuni, dilapidati per le micro-opere di (sedicente) abbellimento urbano dei villaggi del Sannio e del Casertano. Inghiottiti dalle parcelle d’oro dei professionisti e dai miseri salari di finti lavoratori. E stata una mastodontica operazione neopomiciniana, per usare l’ossessivo idolo polemico del bassolinismo. Contro il Partito Unico della Spesa Pubblica, contro i lupi famelici: erano state queste le parole d’ordine della sinistra. Ma la sinistra ha fatto molto peggio dei leggendari broker democristiani, non foss’altro perché ha avuto molti più soldi da spendere. Oggi i dirigenti nazionali del Pd sono i primi a denunciare il paradosso di una regione che, sebbene ricoperta d’oro, non ha visto il suo Pil muoversi di un’unghia. E che ovviamente, non avendo approfittato della ciambella di salvataggio che le porgeva l’Europa, rischia ormai di annegare. Il pomicinismo ebbe almeno il coraggio di puntare le proprie fiches su progetti di sviluppo e interessi d’impresa, sebbene avventurosi i primi e non sempre limpidi i secondi. Comunque agitò le acque, creò opposizione, fece discutere. Il bassolinismo ha finito per spendere il pubblico denaro al solo scopo di preservare il proprio sistema di potere. E intanto soffocava la regione sotto una cappa di conformismo. A chi agita il fantasma della Lega o sobilla il vittimismo della peggiore cultura meridionale, politici onesti come Letta e Ranieri non nascondono che l’attuale tracollo economico e sociale della Campania e di Napoli ha ragioni tutte endogene. Nasce ben prima della stretta tremontiana sulla spesa locale e del patto di stabilità. E porta la firma delle giunte regionali e comunali di Antonio Bassolino e di Rosa Iervolino. A loro, non a Palazzo Chigi, va addebitato un fallimento epocale. Naturalmente, simili verità — o, meglio, ovvietà — condizioneranno non poco il neoeletto Caldoro. Il quale, in primo luogo, dovrà chiarire all’opinione pubblica (e al ministero delle Finanze) la reale situazione dei conti pubblici in Campania. Se c’è chi parla di deficit abissali e chi rivendica bilanci corretti, il meno che si possa dire è che qualcuno sta mentendo. E venuto il momento di sapere, cifre alla mano, quale sia stato per i cittadini della regione il costo del neopomicinismo bassoliniano. (di Paolo Macry da il Corriere del Mezzogiorno)

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