venerdì 26 luglio 2024

Io e Franca

Franca e Filomena
di Filomena Baratto

Io e Franca siamo cugine, figlie di due sorelle. Sua madre, Maria, dieci anni in più della mia, partì per l’Australia negli anni ’50 con dei cugini. Di quattro figli, lei era la prima, mia madre l’ultima, tra loro un’altra sorella e un fratello. Sulla nave che la portava a Melbourne incontrò un ragazzo abruzzese e tra loro fu amore a prima vista. Si ritrovarono fidanzati già prima di approdare. Dal Cilento, prima di lei, erano già partiti in tanti della famiglia dividendosi tra l’America e l’Australia. Allora i migranti eravamo noi. Zia Antonietta, la seconda delle sorelle, mi raccontava della famiglia. Quando andavo a farle visita, apriva la sua scatola di foto e tra risa, pianti e silenzi, in base al ricordo, mi riportava i fatti lontani. Ai miei occhi di bambina la zia d’Australia si presentava come una dea, e non vedevo l’ora di conoscerla. Così cominciai a scriverle assiduamente. Raccontavamo le nostre giornate, il mio futuro, il suo lavoro, la vita in famiglia. Mi trattava in modo affettuoso e il nostro era un rapporto, sebbene a distanza, molto stretto. Quando arrivava la posta, mi fiondavo giù sperando in una sua lettera per me. Cominciai anche a collezionare francobolli: non ne avevo mai visti di così belli. Il postino, che teneva sotto controllo le missive, mi chiedeva sempre di poterli avere. E un giorno mia madre, a mia insaputa, glieli diede. Le feci una scenata. Negli anni settanta mia zia venne in Italia con la famiglia, per la prima volta da quando era partita.

  Fu un evento straordinario. Si divise tra i parenti del marito in Abruzzo e noi in Campania. Una donna alta, bella, gioviale, affettuosa. Andavamo in giro, a mare, a visitare luoghi stupendi della nostra regione e poi a casa, a cucinare per tutti, come fossimo stati sempre in festa. Sembrava un sergente che portava al seguito il suo drappello. Mi piaceva sentire poi le due sorelle confabulare in poltrona. Momenti rari di cui mia madre aveva sentito sempre la mancanza. A volte sembravano due bambine. Qualche volta facevano tenerezza a vederle abbracciate in silenzio. Un giorno mia zia tirò fuori dalla valigia un vestito per me. Era di colore rosa, lungo, lo aveva cucito lei. Alla vista del suo vestito, mia cugina ebbe una crisi di pianto, tanto che la madre dovette riporlo di nuovo in valigia. L’abito serviva per la festa di San Mauro, a Capizzo, nel Cilento. Mio nonno, notato il mio risentimento, in viaggio per Salerno, appena giunti in città, mi portò a comprare un vestito. Lo ricordo ancora: bianco, di lino, con grandi farfalle colorate. Costò cinquantamila lire, una cifra notevole per un abito allora. Fu chiuso in una scatola di quelle con grandi fiocchi come nei film. In macchina andò nel cofano, ma appena ci apprestammo a salire, ci fu un altro pianto di Franca, questa volta per non aver avuto il vestito nuovo. Questo episodio del vestito fu l’unica cosa che ricordai dopo la partenza di mia cugina. Il giorno di San Mauro fu come la più grande festa di famiglia cui avessi mai partecipato. Nonostante non siano rimaste in giro molte foto di quel momento, è tutto registrato in mente. Dopo San Mauro, riprendemmo ad andare a mare e la vacanza continuò tra bagni e passeggiate. Un giorno accadde un fatto increscioso. Mia zia uscì verso le 17 alla ricerca di piante ed erbe aromatiche lungo i sentieri delle campagne. All’ora di cena non si presentò. Scendemmo tutti giù a cercarla. Mio zio furioso, come “Orlando”: andava avanti e dietro come un drago che preparava il suo fuoco. Verso le 10 vedemmo emergere dal buio della strada mia zia. La riconoscemmo dall’andatura, per niente sconvolta, serena, allegra per aver trovato un fascio d’erba miracolosa. Se solo fosse stata più piccola fisicamente, si poteva vedere in lei “la donzelletta che vien dalla campagna in sul calar del sole”. Ma venti di guerra erano già in movimento negli occhi di mio zio. Ci fu una discussione interminabile tra loro due che non riuscimmo a dirimere. Tra l’altro parlavano in inglese, rispondevano in italiano e ci scappava pure il dialetto. In tutto questo dimenticammo di mangiare. I giorni passarono in fretta e giunse quello della loro partenza. Finiva l’incantesimo. Eravamo stati bene insieme. Anche lei non voleva lasciarci. Dopo la sua partenza, riprendemmo a scriverci con assiduità. Ero diventata sua figlia lontana e mia madre era gelosa di questo nostro feeling. Poi crescendo, le lettere diradarono fino a perdere completamente l’abitudine. La lontananza, per quanto si possano avere sentimenti profondi, sembra che, senza alcuna possibilità di vedersi, porti a far scemare l’interesse. E senza i fatti, l’amore si affievolisce, anche se a un piccolo gesto rimonta. La sua nostalgia per i luoghi natii la riportò in Italia di nuovo, questa volta sola, dopo quindici anni dalla prima. Le feci da guida, autista, cuoca, la portavo a spasso, a visitare i posti che amava rivedere. Vedevo nei suoi occhi il desiderio di respirare la sua aria, visitare la terra in cui era nata, ritrovare le cose lasciate in gioventù e soprattutto i suoi defunti. Questa seconda volta respiravo la sua malinconia e ne provavo anch’io, troppe incertezze sul futuro e sapevo che non ci saremmo più viste. Affrontò un viaggio così lungo, da sola, per vedere l’ultima volta l’Italia. È deceduta lo stesso giorno in cui anche mia madre è venuta a mancare, un caso più unico che raro. Il loro rapporto era quello che esiste tra madre e figlia. Mia madre era piccola quando lei andò a salutarla prima di partire per l’Australia. Mancanze che non sono mai state colmate, restano i vuoti anche in noi che ci carichiamo di queste storie. Rileggo spesso la nostra corrispondenza di allora, l’unica cosa che mi resta. Lì dentro scorre la vita che ci raccontavamo piena dei nostri sogni, attese, speranze. Franca è ritornata in Italia alcuni anni fa, ci siamo lasciate bambine e ritrovate donne. Insieme sembravamo le nostre madri, una sensazione stranissima ma così vera. E la storia si ripete ancora. Abbiamo rispolverato i nostri ricordi e vissuto bene il tempo insieme. Forse lei non ricorderà nemmeno più l’episodio del vestito e nemmeno ne abbiamo parlato. E diamo loro molta importanza, proprio perché sono gli unici da ricordare. In noi vivono le storie delle nostre mamme. E’ come se fossero state sempre presenti tra noi. Un oggetto, un detto, una parola, un ricordo ci riportava a loro. Si spera di rivederci, di rivivere nuove esperienze insieme e oggi riusciamo ad abbattere anche la lontananza. In noi il desiderio di vivere la famiglia, le nostre radici, lo chiedono anche i nostri figli. Senza passato non c’è futuro e il passato è la nostra storia.

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