lunedì 5 dicembre 2011

Sette mesi di angoscia e le imprese del Napoli a far da morale

Vico Equense - Finisce un incubo cominciato sette mesi fa. I marittimi della Rosalia D'Amato, arrivano a casa. La loro odissea è cominciata ad aprile, quando la motonave è stata rapita dai pirati nel mare Arabico. I ventidue componenti dell'equipaggio, sedici filippini e sei italiani, hanno vissuto momenti difficili durante il periodo di prigionia. La costiera sorrentina insieme all’isola di Procida sta festeggiando il rientro dei suoi marittimi, Giuseppe Maresca (Vico Equense), Pasquale Massa (Meta), Gennaro Odoaldo e Vincenzo Ambrosino (Procida). I loro familiari e la cittadinanza tutta in questi mesi non hanno mai smesso di sperare. Il padre di Giuseppe Maresca, che lavora sulle navi della stessa compagnia “Perseveranza navigazione”, ha sempre avuto fiducia. Quando gli giunse la notizia del sequestro era in navigazione. “La comunicazione del rapimento, ad aprile, fu per me un duro colpo – ha raccontato Antonino Maresca – ma durante questi mesi la compagnia è stata molto vicino alla mia famiglia, fornendo continue informazioni sullo stato di salute di Giuseppe e dell’intero equipaggio. Sono sbarcato il 2 luglio, da quel giorno ho avuto la possibilità di sentire mio figlio al telefono quattro, cinque volte. Sono state tutte comunicazioni abbastanza brevi ma che sono servite a rassicurare me, mia moglie Maddalena, i miei figli Maria e Luca e le persone che ci sono state vicino e che hanno condiviso la grande preoccupazione di questi mesi”. L’equipaggio, contrariamente a quanto alle volte diffuso dai giornali, non ha vissuto con grandissima sofferenza durante questo periodo. “Mio figlio mi ha più volte raccontato che stavano bene – ha continuato il signor Maresca - e che le condizioni in cui vivevano erano abbastanza buone. In questi ultimi mesi ci siamo anche scambiati delle e-mail”. Oggetto delle conversazione tra Giuseppe e i suoi familiari non era soltanto lo stato in cui viveva l’equipaggio. Al ragazzo, al comandante e ad altri membri dell'equipaggio, premeva essere informati sui risultati delle partite del Napoli. Lo stesso Giuseppe qualche giorno fa al telefono ha raccontato di non aver vissuto "malissimo" durante i mesi di prigionia e di aver usato il calcio come scacciapensieri. “Spesso ho domandato cosa stesse facendo il Napoli – ha raccontato Giuseppe - come tutti i napoletani, anche io vivo di pane e pallone. E poi, in quelle condizioni, a cosa dovevo pensare?”. (Fonte: Ilenia De Rosa da il Roma)

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