di Filomena Baratto
Vico Equense - Mi piacciono i punti di vista, sì, quelli da cui ci poniamo per fare una foto, scegliendo uno spazio, uno squarcio, un paesaggio, o il mare, la costa….Il punto di vista è importante per prendere in considerazione in modo dettagliato la nostra visione più prossima. E’ un pezzettino di mondo, un’area circoscritta a differenza di tutto il resto che è troppo dispersivo, che si allontana da noi. La vista dal nostro punto ci allieta, ci attrae, richiamata dal gusto per il bello e dall’armonia che è in noi.
Così la nostra vita, fatta a episodi, momenti, che conosciamo di volta in volta, senza mai avere la sua visione globale. Nella vita, come nell’arte, c’è il punto di fuga, quel punto lontano oltre il quale la nostra visuale non può andare e in cui converge la proiezione del nostro punto di vista all’infinito. Man mano che avanziamo verso il punto di vista, quello che sembrava un puntino, ingrandisce e diventa uno spazio, un’altra porzione di vista, mentre lontano resta sempre il punto che racchiude l’infinito della nostra vita. La vita sembra chiara solo quando la viviamo, ci siamo dentro, da lontano è tutto uniforme, un puntino di cui non conosciamo lo spazio che occupa.
Passando dalla vita al foglio, quando si comincia a disegnare, tutto converge nel punto di fuga dal quale si traccia la prospettiva verso di noi, come se dal futuro si arrivasse a noi in un processo inverso. Ed è così quando parliamo di destino, le cose che ci accadono già ci conoscono, ci guardano da lontano, da quel puntino e sono solo richiamate da noi. Nella Bibbia si legge che Dio ci conosce già dall’eternità e forse quel punto che scappa continuamente non è altro che l’eternità. E’ come se ci attirasse a sé. Da quante visuali è formata la nostra vita prima di tendere al punto di fuga? Tantissime, infinite, tante da non farci mai vedere quel punto che ci attende in fondo.
Il punto di fuga, nella prospettiva rinascimentale, racchiude simbolicamente l’ emancipazione dell’uomo. In essa si riscontra che è lo sguardo che domina lo spazio, privilegiando il soggetto che guarda, mettendo in secondo piano il punto di fuga.
Con esso cade l’ideale teologico del Medioevo prettamente religiosa per privilegiarne un’altra più a misura d’uomo, quindi la sovranità del mondo che tende verso la laicità. L’osservatore vuol essere sovrano come lo era l’occhio di Dio, con una differenza che l’occhio di Dio era sempre rappresentato al di sopra del mondo in una visione globale, mentre nell’occhio della prospettiva, come l’aveva preordinata Leon Battista Alberti,e prima ancora il Brunelleschi, lo sguardo proietta un’immagine che resta all’interno del mondo.
Questa fuga ha una funzione nostalgica per il soggetto, e pertanto l’uomo, attuando un distacco dal punto di fuga, esprime la sua fede, come a rappresentare lo spazio della coscienza in cui si mette in moto il dubbio. E questo continuo oscillare nel vuoto, dà al soggetto la tensione verso quel punto che rappresenta l’eternità.
La fede, d’altra parte, non era quella del medioevo vista come un’adesione incondizionata a Dio, e nemmeno quella intesa come assoluta adesione priva di domande, così come si chiede il filosofo Emanuele Severino. La fede è data proprio dalla continua lotta col dubbio e la nostra prospettiva di vita racchiude sguardo, spazio e fuga, in perfetta tensione per la ricerca della fede.
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