di Luigi Vicinanza da la Repubblica Napoli
Sospeso tra cielo e mare un belvedere in alta quota infonde l'emozione del paradiso terrestre. Si, bisogna stare in alto, molto in alto affinchè la fascinazione della bellezza prevalga sulla realtà urbana giù in basso. Gli opposti si incontrano. Capo Miseno e Punta Campanella si toccano. Placido e ingannevole il Vesuvio domina l'arco del golfo; Capri Ischia e Procida quasi puoi afferrarle. L'occhio si smarrisce inseguendo i luoghi del mito. Ed è una fortuna, perché cosi non coglie lo sfasciume urbano, case su case; da lassù non si può definire dove finisce una città e inizia un'altra. L'abusivismo edilizio non conosce zone franche, neppure sulle pendici del vulcano. Dal monte Faito la visione del golfo di Napoli è uno spettacolo stupefacente. Vedi solo le cose belle. Tante. Il Faito può essere considerato una montagna urbana. Per chi non lo conosce può sembrare una contraddizione in termini. Invece no, respiri a pieni polmoni aria di montagna ma sei dentro un contesto cittadino con tutte le sue criticità. Da Castellammare di Stabia - candidata Capitale della cultura 2022 - si arriva in vetta con la funivia in otto minuti. Da Vico Equense venti minuti d'auto. Caro agli stabiesi, meno considerato dagli equani, il Faito è la montagna che-non-c'è. Poco conosciuto dagli stessi napoletani.
Cosi, a cavallo tra gli anni '70 e '80 del secolo scorso, ne scriveva Domenico Rea, l'autore di successo di "Gesù, Fate luce" e di "Ninfa plebea": "Collocato in posizione primaria e, direi, vistosa nel panorama del Golfo di Napoli, dirimpetto al Vesuvio di cui ne contende l'altezza con una differenza di poche decine di metri, passa inosservato. Sta li, bello, alto, con un che di possente, a pinnacolo, acuto, ultima selvaggia gobba a nord dei Lattari, domina il mare come lo sterminator Vesevo; ma Leopardi non lo inserisce nella sua tragica orografia". Inosservato ma da esplorare secondo Rea; alla cui penna il disciolto Ente provinciale per il turismo di Napoli commissionò un raro quadernetto con un testo in quattro lingue (inglese, francese e tedesco in aggiunta all'italiano). Rea usò per il Faito la definizione di "montagna globale dove, per così dire, le nevi si mescolano con le sabbie dorate sottostanti e, viceversa, dove non si può gustare una cosa senza tener presente l'altra, lasciata una manciata di minuti prima". Con i suoi 1.131 metri è la vetta più alta dei Monti Lattari; sul Faito vive stabilmente una piccola comunità di una sessantina di persone. D'estate e un privilegio, ma d'inverno è dura. Una ventina i bambini che per frequentare le elementari devono scendere con io scuolabus giù a Molano, la più vicina frazione di Vico Equense. Alcune famiglie tengono aperto tutto l'anno ristoranti, bar, pensioni dove dormire. Al belvedere trovi Luigi, terza generazione; al rifugio Tre Pini Lina, seconda generazione, racconta la novità delle gite rilassanti nel verde organizzate via Facebook. Nel centro sportivo, luogo di svago per giovani e "pantere grigie". Angela gestisce l'accesso alla piscina, un incredibile tuffo a mille metri sul livello del mare. In questa strana estate resa inquieta dall'epidemia di Covid-19 la funivia non ha smesso di funzionare. Domenica scorsa il picco di 1.600 passeggeri. Un nuovo piccolo record è previsto per Ferragosto. L'impianto, gestito dall'Eav, da sempre all'interno della stazione della Circumvesuviana di Castellammare, ha rischiato la dismissione. Uno sfregio alla bellezza e all'ambiente, ma l'azienda regionale dei trasporti l'ha completamente rinnovato un paio d'anni fa. Migliorata anche la segnaletica. Così è abbastanza facile, anche per chi sale la prima volta, individuare quattro faggi secolari, giganteschi, posti a guardia delle neviere, le fosse dove veniva conservata la neve. Il Faito, quando eravamo ancora poveri, era una grande fabbrica di ghiaccio per i paesi circostanti e riforniva di ottima legna il cantiere navale stabiese. Poi arrivò la generazione del benessere economico - quella cui io stesso appartengo - e scoprì il Faito come meta del turismo domestico. La cartellonistica oggi aiuta a muoversi lungo strade asfaltate e sentieri in un immaginario viaggio nella memoria; qui si vede la mano del Parco dei Monti Lattari. Quando il timore e il tremore per il sacro scandivano la vita quotidiana, uno dei siti più alti della montagna era luogo di pellegrinaggio. Lo è ancor oggi nella piccola cappella, appena restaurata, di San Michele, si proprio lì dove dagli anni del boom economico sono installati i ripetitori della Rai, brutti quanto utili. La tradizione religiosa racconta dell'arcangelo Michele apparso una notte a due eremiti, il vescovo Catello e l'abate Antonino; a loro ordinò di edificare un tempio. E così fu. Sono trascorsi all'incirca millecinquecento anni da quella notte misteriosa. La cronaca in latino è riferita da un Anonimo Sorrentino le cui parole sono impresse all'ingresso della chiesetta. Se l'epidemia ci ha costretto a ritmi più lenti, il santuario di San Michele merita una sosta e uno sguardo lungo. Se c'è buona visibilità, dal lato sud si vede persino la piana del Sele e giù giù fino al Cilento il monte Gelbison, altro monte sacro della Campania. Un indecifrabile dialogo a distanza.
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