sabato 23 settembre 2023

Dai banchi dell'Umberto al quirinale

Carlo Fermariello e Giorgio Napolitano 
a Vico Equense
di Matteo Cosenza Corriere del Mezzogiorno

C'erano una volta Giorgio e Giorgione. Sulla loro identità i comunisti napoletani, dai massimi dirigenti agli operai, non si sbagliavano mai e, nella familiarità che regnava in quel mondo («saluti fraterni» concludevano qualsiasi missiva) era normale che molti, se non tutti, parlassero di loro due chiamandoli appunto per nome. Se Giorgione, Amendola naturalmente, era un monumento, anche fisico, di vita, famiglia, storia e politica, Giorgio Napolitano era diventato da subito, da quando nel 1945 si iscrisse al Pci, il dirigente di maggiore peso e prestigio. Ad accoglierlo nella sede di San Potito erano state figure di primo piano come Mario Palermo e Maurizio Valenzi. Il partito comunista divenne da subito la sua casa perché in esso ritrovò non solo la forza politica più determinata al cambiamento ma anche quel respiro culturale maturato negli anni del liceo Umberto. I suoi compagni di classe o di liceo avranno molto da dire già allora e poi nel dopoguerra nei campi più svariati; i nomi sono quelli più volte ricordati: Giuseppe Patroni Griffi, Raffaele La Capria, Francesco Rosi, Antonio Ghirelli, Maurizio Barendson, Luigi Compagnone, Massimo Caprara e altri. Questo pezzo fondamentale della biografia di Napolitano richiama di nuovo il percorso di Amendola, il cui approdo alla casa comunista fu determinato da una scelta politica (riteneva quel partito l'organizzazione più affidabile nella lotta al fascismo) e culturale (la sua frequentazione della casa di Benedetto Croce dice tanto).Ed è quasi scontato sottolineare che i due Giorgio erano e saranno sempre profondamente legati a Napoli. Da questi cenni biografici si capisce il capolavoro politico che riuscì a produrre il Pci a Napoli. Era per costituzione il partito degli operai, impegnato a difendere gli interessi delle classi più deboli, ma al tempo stesso riuscì ad avere l'egemonia culturale nella città. Sarà questo il tratto indelebile di una storia la cui fine sarà suggellata dalla scomparsa o dal ridimensionamento delle fabbriche.


 

L'alleanza tra la classe operaia e ceti medi, gli intellettuali, le professioni e il mondo dell'università sarà un'intuizione che produrrà per decenni un'attività politica ricca e articolata accompagnata dalla formazione di una vasta platea di dirigenti di lungo corso. Napolitano fu naturalmente e da subito un leader valicando ben presto i confini della città e affermandosi come un dirigente politico nazionale e progressivamente un uomo delle istituzioni. In una cavalcata inarrestabile fino alla carica più importante. Il fatto che sia riuscito in questa impresa sulla carta molto complicata non significa che sia stato un personaggio accomodante. Anzi, nel partito a livello nazionale e soprattutto a Napoli, era con Gerardo Chiaromonte, Andrea Geremicca, Valenzi, Carlo Fermariello e tanti altri, il leader riconosciuto dell'area riformista in contrasto con quella operaista (Bassolino e altri), amendoliani contro ingraiani. Insomma nel Pci non c'erano ufficialmente le correnti, ma qualcosa di simile sì. Poi c'era la base che equilibrava i rapporti, perché più forte era il legame con operai, impiegati, disoccupati e maggiore diventava il senso di responsabilità che riconduceva quasi sempre, secondo la regola del centralismo democratico, anche le tensioni profonde ad unità più o meno convinta. Il fatto è che Napoli ha rappresentato uno spaccato più che significativo e importante della storia del Pci, e Napolitano, anche quando non stava più in città, ne è stato un protagonista. Per quanto di modi a primo impatto non popolari riusciva a stare a suo agio nell'alto e nel basso del partito. Probabilmente non c'è quartiere o città della provincia in cui non sia stato per un comizio, una riunione, un incontro con i compagni. Aveva ritmi di lavoro impressionanti, accompagnata da una visione tecnica delle cose evidentemente ereditata dal padre avvocato. Chi scrive lo ricorda negli Anni Sessanta nella sua stanza di segretario della federazione napoletana in via dei Fiorentini mentre svolgeva contemporaneamente molteplici attività tra appunti, telefonate, documenti e conversazioni e a domanda ebbe dalla segretaria una risposta eloquente: è sempre così. La sua elezione a presidente della Repubblica quando il Pci non esisteva più fu comunque un evento spartiacque nella storia repubblicana. Nel mondo di sinistra napoletano, comunista o post-comunista, ci fu grande entusiasmo, quasi come se fosse stato conquistato il Palazzo d'Inverno. Non era e non poteva essere così, ma fu anche chiaro che Napoli in qualche modo conquistava una centralità. Che Napolitano curò di assicurare con le sue visite continue e i soggiorni a Villa Rosebery. Ne sanno qualcosa i suoi vicini, Maurizio e Mirella Barracco, che ospitavano, spesso ricambiati, il Presidente e sua moglie Clio. Ma anche le passeggiate per il lungomare, il caffè da Gambrinus, le visite a luoghi significativi e anche la conoscenza diretta dello stato della città ormai erano dati acquisiti per i napoletani. Al punto che il capo dello Stato non si risparmiò un intervento clamoroso dinanzi alle montagne di rifiuti nelle strade cittadine. E così mentre la sua prima visita a Napoli aveva fatto significativamente tappa in via Manzoni nell'abitazione del suo amico e compagno di una vita, il mitico sindaco Maurizio Valenzi, nei confronti di un altro sindaco, in quel momento presidente della Regione, Antonio Bassolino, non fu tenero e gli effetti furono inevitabili, come con amarezza lo stesso ex sindaco ha raccontato in uno dei suoi libri, Le Dolomiti di Napoli . Una vita lunghissima e ricchissima, quella di Napolitano. La passione, la politica, l'Italia e Napoli quasi come la colonna sonora della sua esistenza. E a Napoli sono tanti quelli che hanno un ricordo, una testimonianza da raccontare perché lui Napoli l'aveva anche nel nome. Per restare in tema un ricordo personale. Nel gennaio 1981 ai funerali di mio padre, l'operaio Saul del cantiere navale di Castellammare, fu Napolitano a svolgere l'orazione funebre. E noi sulla tomba incidemmo la frase più significativa del suo discorso: «La moralità operaia ».

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