sabato 7 gennaio 2017

Antonino Cannavacciuolo «A 13 anni lo chef mi dava mazzate ma ho imparato il mestiere»

Lo chef protagonista in televisione. «Bottura? È il numero uno al mondo, e la cosa mi rende felice. Masterchef? Lì mi diverto perché non recito» 

Fonte: Aldo Cazzullo, da Il Corriere della Sera 

«Sono andato a lavorare in cucina a 13 anni e mezzo. La notte tornavo a casa con spalle e braccia blu per le mazzate che mi rifilava uno chef. Mia mamma voleva protestare. Mio padre disse: “Se gliele ha date, significa che se le meritava”. Ora quello chef lo arresterebbero per maltrattamenti. A me è servito». Ora le pacche Antonino Cannavacciuolo — nome e aspetto irsuto da brigante campano — le tira per affetto. All’uscita di Villa Crespi, un palazzo moresco con minareto tra il Sacro Monte e il lago d’Orta, i clienti si mettono in fila per fotografarsi con lui, che li sovrasta tutti: un metro e 91 per 140 chili, aria burbera, occhi verdi. Parla un italiano smozzicato: «È che traduco dal napoletano. Io penso e sogno in napoletano. Parlo italiano come uno di voi parla inglese; e mi capita di sbagliare qualche parola». Il padre, Andrea, era professore all’istituto alberghiero di Vico Equense, il paese natale, sulla penisola sorrentina. «Cuoco e scultore. Scava le zucche, modella il burro e la margarina, scolpisce il legno, ma anche il ghiaccio. Ha inventato il presepe del ‘900, con il ciabattino che aggiusta le timberland. Da ragazzo studiavo nella scuola dove papà insegnava, e lavoravo nell’hotel dove cucinava: La Sonrisa, un cinque stelle a Sant’Antonio Abate, vicino a Pompei; quello dove adesso hanno ambientato Il boss delle cerimonie, la trasmissione tv di Real Time». «Il primo incarico fu aprire le uova: romperle, separare il tuorlo dall’albume, montarle per il gelato alla vaniglia. Aprivo 800 uova al giorno, per fare 50 contenitori di gelato da mettere sulla macedonia e le fragoline di bosco. Alla fine c’era da lavare la cucina, scopare per terra, svuotare il magazzino.
 
Poi mi passarono ai prosciutti. Disossavo venti prosciutti al giorno per preparare i canapé: burro e acciughe, cremoso, uova e caviale, formaggi e, ovviamente, prosciutto. Decorati con il burro, la gelatina, la polverina, la fogliolina: una cosa maniacale, che ora non usa più. Ma quando l’altro giorno un ragazzo ha guarnito un piatto in malo modo con una fogliolina appassita, l’ho preso da parte e gli ho detto: “Tu non hai fatto un torto a me, hai fatto un torto a te stesso”. Imparare un mestiere è la cosa più importante, e l’unico modo è il lavoro. Ancora adesso io saprei disossare un maiale: filetto, controfiletto, cosciotto, ossa, il taglio per il bollito, quello per gli hamburger... Da ragazzino mi veniva la febbre per la fatica, e mio padre mi mandava a dormire in macchina; solo una volta mi portò in ospedale perché avevo le gambe gonfie appunto come prosciutti. Alla Sonrisa si teneva il festival della canzone napoletana: c’era un ragazzino bravissimo che aveva studiato al conservatorio, suonava il piano e la chitarra: Gigi D’Alessio. E veniva in ritiro il Napoli: Careca, Alemao, Bruno Giordano, il mitico Bruscolotti. E Maradona». «L’ho visto la prima volta al San Paolo quando avevo sette anni. Napoli-Inter 0 a 0. Era appena arrivato. Mio zio me lo indicò: “Quello è Maradona”. L’esordio fu difficile. Ogni sera dopo la partita telefonava alla madre in Argentina per dirle il risultato: a Barcellona vinceva quasi sempre; a Napoli quasi mai». Quando ha conosciuto Maradona? «Nel 2006 venne qui tre giorni. In incognito. E io l’ho protetto. Si era sparsa la voce, chiamavano i giornalisti, e io negavo». Cosa mangiava? «Era a dieta. Dormiva di giorno e alle 4 di notte chiamava il room service: spaghetti alla genovese, scampi in emulsione di polpo, ma anche paccheri al ragù napoletano». Gli scampi sono serviti sul rosso del pomodoro, il bianco del polpo e il verde di un trito di origano e olive taggiasche. Anche gli spaghetti alla genovese grazie alla spuma di parmigiano diventano bianchi rossi e verdi. Cannavacciuolo si dà un’impressionante pacca sul cuore. «Sono legatissimo al nostro Paese, e soffro a vederlo così depresso. Il Sud può diventare l’orto d’Europa. Ora sul palcoscenico ci siamo noi chef; ma tra dieci anni ci saranno i contadini. Sono stufo di lavorare arance spagnole mentre in Sicilia abbattono gli agrumeti. Basta con il pesce del Marocco o della Tanzania mentre i nostri pescatori pagano il gasolio con accise scandinave. Più lavori, più lo Stato ti penalizza; dovrebbe essere il contrario. Anzi, basta anche con questa retorica contro lo Stato. Lo Stato siamo noi. Non facciamo sempre le vittime, ritroviamo il gusto del lavoro a regola d’arte». «A 16 anni sono andato a Napoli, nelle cucine dell’hotel Vesuvio. Poi al San Vincenzo, tra Vico e Meta di Sorrento, da Giosué Maresca. Qui le botte erano scherzose: una volta in tre prendemmo da parte Giosué e gliene restituimmo una buona parte. Per arrotondare facevo il falegname. A 19 anni sono partito militare, a Orvieto: ovviamente mi misero in cucina. Preparavo un buffet con un veliero di zucca, fiori fatti con i rapanelli, le salsicce fresche: anche gli ufficiali venivano a mangiare alla nostra mensa. Dopo la naia arrivai qui, sul lago d’Orta, all’Approdo, dove divenni amico della figlia del proprietario, Cinzia. Amici e basta, per due anni. Poi tornai al Sud, al Quisisana di Capri, e Cinzia venne a trovarmi. È stata lei la capocciona. Scattò la scintilla. Ora è mia moglie». «Nelle cucine del Quisisana eravamo in venti. Metà erano parassiti, di cui si sono perse le tracce. I dieci che lavoravano hanno fatto tutti strada: Oliver Glowig ha preso due stelle Michelin all’Olivo, il ristorante dell’hotel di Tonino Cacace ad Anacapri; Nazzareno Menghini è andato a Roma al De Russie; Ciro Salatiello ha inventato il kepurp, il polpo arrostito come un kebab. Voglio dire che le opportunità ci sono. Non ne posso più di questo coro di lamenti. La protesta a volte è giusta; ma il lamento non serve a niente. Non stai bene in un posto? Vattene e prova da un’altra parte. Chi trova un bravo apprendista non lo manda via. Io per fare i miei stage in Alsazia pagavo: all’Auberge de l’Ill lo chef ottantenne arrivava alle 6 del mattino, ci trovava già al lavoro, apriva i frigo, e se vedeva qualcosa scoperto erano cazziate. Oggi i ragazzi sono troppo viziati; e la colpa è nostra. Anche mia. Sono il primo a viziare un po’ troppo i miei figli, Elisa e Andrea. Però nella mia cucina le ore non si contano. È sempre aperta: non vado mai a dormire prima delle 3, e alle 3 e mezza arriva il panettiere». «A Masterchef mi diverto perché non recito. Non ho i tempi televisivi, non ho il linguaggio. Mi dicono però che ho un mio stile. Con i colleghi mi trovo benissimo. Barbieri, il nano malefico. Bastianich, il businessman. Cracco, un grande». Anche se fa la pubblicità alle patatine? «Chi non ha mai mangiato una patatina? E poi con me è delizioso. Tutto il gruppo degli chef italiani è cresciuto in questi anni. Tra noi siamo uniti. Massimo Bottura è davvero il numero 1 al mondo, e la cosa mi riempie di gioia perché all’estero Bottura vuol dire Italia; così com’ero triste quando c’era la monnezza in strada a Napoli, e all’estero non pensavano a Napoli ma all’Italia». «Nei giorni del primo scudetto di Maradona ho visto tagliare il tettuccio delle auto con la sega elettrica, per farne decappottabili su cui girare in dieci, me compreso, a festeggiare. Scrissero la formazione del Napoli sui palazzi, la gente si svegliava con la B di Bruscolotti alta due metri sopra la finestra. Dipinsero le scalinate delle chiese di bianco e azzurro. E poi quella scritta al cimitero: “Che vi siete persi...”. Oggi mi piace Sarri: burbero, ma buono. E se De Laurentiis non cede pure Mertens... Mio figlio Andrea ha 4 anni, vive qui vicino alla Svizzera, ma si sente napoletano e tifa Napoli». «Sono legatissimo alla mia famiglia. A Natale ho bevuto con papà un barolo del 1949, il suo anno di nascita. E sono legatissimo alla memoria di sua madre, nonna Fiorentina. L’ultima parola che ha detto è stata il mio nome: “Salutame a Tonino”. Quando sono in difficoltà o in ansia, la sento sempre. In tv, prima che si accendano le telecamere, o allo stadio Olimpico, dove ho cucinato davanti al pubblico, la penso e lei mi risponde. Grazie a nonna credo nella vita dopo la morte, e non ho paura».

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