di Filomena Baratto
Vico Equense - Non ricordo l’anno, ma la prima volta che ho vissuto l’esperienza del terremoto ero piccola, in braccio a mia madre. Alla voce “il terremoto” tutti si precipitarono fuori. Non capivo cosa stesse succedendo. Dondolavo in braccio a lei, al sicuro, ma consapevole di un pericolo incombente. Ci raccogliemmo tutti davanti al sagrato della chiesa a San Salvatore, guardandoci intorno. Compresi che la terra tremava, ma, abbassando lo sguardo, era tutto fermo e non ebbi nemmeno il tempo di avere paura, così come accade ai bambini quando non comprendono i reali pericoli della vita. La sera del terremoto, quella domenica del 23 novembre dell’80, ebbi la sensazione di dover morire da un momento all’altro: la casa barcollava, roteava, rollava come una barca in mezzo alla tempesta più cupa. Ci riversammo tutti sul pianerottolo uscendo contemporaneamente dalle porte, temendo che il ballatoio sprofondasse per il peso. Ricordo la paura, giù al palazzo, con mia sorella, il boato, il buio, le urla, e noi, tutti infreddoliti, spaventati, in panico. Ricordo la mia ansia, il cuore all’impazzata, non sapendo dove fossero i miei, usciti in macchina con l’altra sorella. Continuavo a credere che quella sarebbe stata l’ultima mia notte. Poi, finalmente, arrivarono e cominciò la nostra avventura al freddo fuori casa. Si dormiva in macchina, con la radio sempre accesa a raccontarci delle scosse, con la paura di rivivere le ore precedenti.
Nella seconda settimana, ci fu un tentativo di prendere le cose di primaria necessità dalla casa, ma non ci riuscimmo. Seguirono giorni di paura, oltre alla difficoltà di riposare. Di notte in macchina faceva freddo e quando era buio la tragedia ci avvolgeva di nuovo. I bollettini mettevano giù il morale, era già tanto ritrovarsi vivi! Era tutto precario, nessuna sicurezza, intorno case crollate, l’acqua non più buona, la luce mancava per la centrale saltata. In quella difficoltà, quando mi resi conto di averla scampata, cominciai a guardare in faccia il prossimo leggendovi la mia stessa paura e i miei stessi bisogni. Ci si aiutava, si stava insieme, si stava uniti, ci si raccontava i timori e le preoccupazioni. A volte, condividere gli stati d’animo più infelici aiuta. Nel pericolo eravamo tutti buoni, propositivi, solidali, uniti. Avevamo come casa l’auto, quello era il nostro riparo. Intorno c’erano case crollate e faceva un certo effetto non vedere il paesaggio di prima, l’occhio ora cadeva su un muro divelto, un tetto crollato, un pavimento saltato, una casa abbattuta.
La prima settimana che tornammo a casa, chiedevo a mia madre cosa sarebbe successo se si fosse verificato di nuovo e lei rispondeva che stavamo sotto il cielo, affermazione che mi faceva stare ancora più male. Il pensiero di non essere padrona di me stessa, di dipendere da qualcuno, mi mandò in depressione. I danni ingenti di quel terremoto furono, oltre ai 2998 morti, anche materiali e psicologici. Un terremoto spazza via ritmi e vite, distrugge famiglie, conduce alla solitudine e alla paura, rispolvera sentimenti bui. Capisci la tua piccola vita, che non sei nessuno anche con un cervello pensante, che la Natura ha il potere di abbatterti e che lei è più forte di te. In un primo momento c’è quasi una rassegnazione alla nostra debolezza poi capisci che, se vuoi sopravvivere agli eventi naturali, devi giocare d’anticipo e prevenire i suoi conati, le sue violente ribellioni. L’intelligenza può far costruire case con criterio, adatte a un territorio ad alta sismicità, farci rispettare la natura se non vogliamo che ci vomiti addosso. Non si capisce come di questi tempi, con tanti esperti in circolazione, le case crollino come i birilli al tiro di una palla; non si capisce come non si ristrutturi mezza Italia ricca di case medievali, di case sopravvissute alle guerre, di case costruite in terreni franosi, di palazzi venuti su come per magia da un giorno all’altro. Fa comodo ad alcuni che questi eventi naturali spazzino via tutto, mettendo speranza nella ricostruzione, che inizierà come sempre il suo rapido percorso, come un lupo quando si lecca i baffi prima di mangiare un agnellino. Il cemento è una piaga di questo territorio che nel tempo ha costruito dove non doveva e male dove doveva. Non è un composto come ci insegnano a scuola, oggi rappresenta ben altro: un animale di indistinta natura con fauci a cui non bastano mai le erogazioni di denaro, che dà assalti, che lo si lascia pascolare ovunque, che crea mostri e non si sazia mai. E’ un po’ difficile scoprire l’offa con cui possa saziarsi! Dovremmo partire dal rispettare anche un filo d’erba e non depauperare la natura di ogni bene creando disastri idrogeologici. Abbiamo solo questa possibilità per difenderci, quella di non fare di lei uno scempio continuo. Ricordo le preghiere, le parole delle persone anziane che facevano discorsi del genere: “Ho vissuto abbastanza, posso anche morire”, questo tipo di affermazione era per me angoscia pura, il fatto di rassegnarsi alla morte non lo concepivo, io ne avevo paura. La forza nasceva tra noi ragazzi quando dicevamo:” Quando tutto sarà finito”. Il pensiero di un futuro prossimo era la migliore cura, per noi giovani. Giorno dopo giorno si acquistava un po’ di fiducia mentre i nostri genitori avevano diverse gatte da pelare. Si era come persi, si stava come nella speranza di qualcosa, di qualcuno che ci aiutasse, avevamo perso il senso dell’orientamento. A pochi chilometri da noi c’erano stati tanti morti ed io mi chiedevo perché ero stata risparmiata. Furono tante le persone conosciute che non vidi più e reputai il terremoto un vento venuto a spazzarci via. Lo sciame sismico sembrò anche più spaventoso del terremoto e ci vollero tre mesi prima di riprenderci. Quello che avevamo visto ci bastò. Mai più avremmo voluto sentire o vedere una cosa del genere.
Da allora, quando sento di un terremoto, come ora quello del 24 agosto, ritorno all’esperienza vissuta nell’80 e vivo come se fossi coinvolta di nuovo in quei momenti. Il primo aiuto in questi casi, mentre crediamo sia il cibo, è farli riprendere dallo choc, renderli consapevoli di continuare a vivere. E’ come se rinascessimo, abbiamo bisogno di risentire i nostri confini. Il cibo è la cosa attraverso cui crediamo di dare il nostro bene, è la forma di amore spicciola, pronto uso. Ma in questi momenti ci vogliono forme di amore più profonde: come una mano tesa a prenderci, un sollevarci per capire che ce l’abbiamo fatta, un piangere insieme di paura, un abbraccio per sapere che non siamo soli, un tenersi per mano nel silenzio, sentendo solo il calore delle dita. In questi momenti non servono clamori, né vicini, né lontani, ne schiamazzi credendo che così ci stiamo occupando di chi vive l’emergenza. Serve esempio, come gli angeli che scavano senza sosta, quasi in modo compulsivo, ben sapendo che i minuti persi sono vite che vanno via. Andare sul luogo e adoperarsi. Servono persone che si preoccupino di chi è rimasto solo e ha perso tutto. Servono persone di buona volontà, soprattutto umanità. Serve anche il silenzio nel quale si dipanano tante domande ritrovando il senso della vita. Il dolore è sempre silenzioso, mai plateale e la sua sede è nelle coscienze, ciascuna a capire cosa c’entra con quanto è successo. Ma serve più di tutto la cura. Dovremmo essere efficienti nella sicurezza così come lo siamo nella solidarietà che non ci solleva dalle responsabilità. Solo dopo aver fatto tutto quello che è nelle nostre possibilità, possiamo parlare di natura matrigna e magari fare nostro quel pessimismo cosmico tanto caro a Leopardi.
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